C’è stato un passato, parlo di un passato remoto ma non remotissimo, niente che chi sta qui a scrivere o leggere non possa ricordare, nel quale il mondo che si vedeva come alternativo al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, chiamiamolo underground, alternative, indipendente, flirtava con massima cautela col Festival stesso, uno alla volta, con grande attenzione e pronto a essere accusato, prima, e massacrato, poi, da chi quel mondo animava e frequentava; il pubblico dei concerti, di Festival quali il Tora! Tora!, gli acquirenti dei dischi, quasi tutti di poche label specifiche, di settore, la Mescal su tutte. Prima è stata la volta dei Subsonica, con Tutti i miei sbagli, canzone potente che ha fatto ballare tanti di noi nei centri sociali, ma che proprio dalle antiche assi dell’Ariston nel 2000 è stato presentato (lo so, lo so che l’Ariston non è poi così antico, e che un tempo il Festival andava di scena dal Casinò, ma era per dire). Poi, in ordine sparso, anche altri alfieri di quel genere, sporchi e cattivi, si sono affacciati a quella ribalta, sempre lasciando stupefatto il pubblico mainstream, assolutamente impermeabile a quei suoni spigolosi, fossero anche quelli elettrici degli Afterhours, in gara nel Festival bonolisiano con Il paese è reale, anno di grazia 200; così come quelli decisamente meno ruvidi dei Perturbazione, dei Marta sui Tubi, quelli addirittura sghembi dei Marlene Kuntz, accompagnati dalla tromba di Roy Paci, e via discorrendo.
Un flirt, appunto, dilazionato nel tempo, usato col contagocce, quasi mai capito dal pubblico sanremese, mai da quello da cui quegli artisti provenivano e verso il quale sono sempre tornati. Chi vive dentro le nicchie tende spesso a considerarsi tradito dai propri beniamini, ci vuole poco, anche un centinaio di copie vendute in più, tali da farti dire “era meglio prima”. Poi c’è stato qualcosa che deve essere cambiato, e quel qualcosa risponde al nome di indie. Un genere, chiamiamolo così seppur parlare di generi oggi non ha davvero più senso, viviamo non a caso nell’epoca che il più grande critico vivente, Simon Reynolds, ha indicato come quella della Retromania, lo sguardo costantemente rivolto al passato, al recupero, al revival, un genere che prendeva il nome dal più lungo termine “indipendente”, ma che sin da subito ha tradito le aspettative, gettandosi alla prima occasione con le scarpe e tutto nel mercato, inseguendo un successo anche dozzinale, il passaggio anche lessicale dall’indie all’itPop. Così ecco che TheGiornalisti, Calcutta, Coez, faccio nomi facilmente riconoscibili ma potrei farne altri, anche più precisi, penso infatti a I Cani, per dire, sono diventati di dominio pubblico, lì a fare canzoni di discreto successo, a scrivere anche per altri, a collaborare con artisti che con l’indipendenza nulla avevano a che fare. Citare a questo punto il nome di Francesca Michielin è quasi un dovere kantiano, quindi le hit, la fama, le firme per le major, in molti casi preludio di un capitombolo ancor più fragoroso perché giunto non appena saliti in vetta, come quando in un parco acquatico si decide di affrontare una di quelle attrattive che ci spuntano in piscine piccolissime da altezze vertiginose, splash.
Del resto le classifiche, quelle di vendita che poi sarebbero quelle relative allo streaming, di vendere musica, oggi non si parla più neanche nei sogni più arditi dei discografici, sono diventate infestate da nomi impronunciabili per chiunque sia nato nel Novecento e abbia anche solo una mera preparazione scolastica di base, la trap a dominare le vendite, vai di Rondodasosa, Paky, Rhove e compagnia bella (inizialmente avevo inserito in questo minielenco Bresh, poi ho scoperto che ha scritto il nuovo inno del Genoa, squadra che mi fa battere il cuore, e che tale inno, titolo Guasto d’amore, ha battuto proprio pochi giorni fa il record di stream mai fatti in Italia con una canzone, come neanche è riuscito a Shakira con la canzone in cui si vendica delle corna che le ha messo Piquè, evviva Bresh). Perché mai si dovrebbe continuare a guardare con sospetto a chi non pratica una musica che sia ascrivibile a una qualche nostra tradizione melodica? Seppur è vero che un tempo chi dominava le classifiche guardava a Sanremo come chi va in giro con una giacca nuova e guarda alla cagata che un piccione ci ha incautamente sparato sopra, oggi le cose vanno diversamente, è quello l’Eldorado cui guardare, o più semplicemente è il solo luogo praticabile, per il resto un deserto arido come neanche in un qualche sequel di Mad Max. Così negli ultimi anni, complice proprio Amadeus, ma prima di lui anche Baglioni, almeno il secondo Baglioni, ecco che le truppe cammellate di quella che un tempo era vista come la musica alternativa sono approdate anche in riviera, lì a contendersi la vittoria con qualche residuo di un passato passato, di anno in anno rappresentato da Orietta Berti, Iva Zanicchi, quest’anno dai Cugini di Campagna, seppur con un brano scritto dai modernissimi La Rappresentante di Lista, tanto per fare un nome che un tempo avremmo visto più facilmente al Tora! Tora! che a Sanremo, come con chi continua a fare un pop che tale si può continuare a definire. Il tutto senza distinzioni di razza o religione, tutti cantanti in gara, tutti legittimamente a Sanremo, senza paura di andare poi a confrontarsi col proprio pubblico una volta finita la kermesse, seppur a qualcuno andato in gara qualche critica dal proprio pubblico è in effetti arrivato, ma soprattutto senza paura di vedersi guardati come alieni dal pubblico sanremese.
Amadeus in questo è quasi una sorta di architetto diabolico, un Enigmista con la faccia imperscrutabile, oltre ai tanti nomi che a quel mondo hanno fatto riferimento, penso ai Coma_Cose, a Ariete, a Madame, a Levante, a Colapesce e Dimartino, a Rosa Chemical, a Olly, agli stessi Lazza e Mr Rain. Ecco una salva nomi forse anche più radicali, perché non si sono ancora sporcati le mani, o forse i piedi, su quel palco, entrati di sottecchi al Festival in veste di autori, dopo che ormai nomi come quello di Manuel Agnelli, a duettare prima con Daniele Silvestri e Rancore nel 2019, poi con i Maneskin nel 2021, si ritrova a fare l’ospite di gIANMARIA, uscito da X Factor e distante sideralmente (cit.) da qualsiasi idea di alternative. Quindi ecco Thasup, un tempo Tha Supreme, al secolo Davide Mattei, essersi affiancato alla scrittura proprio con Damiano David dei Maneskin per il brano di sua sorella Mara Sattei, in gara col pezzo Duemilaminuti. Quindi ecco Calcutta scrivere insieme a Dardust e alla stessa Ariete Mare di guai, portata in gara da quest’ultima. Quindi ecco Salmo scrivere il brano di Shari, sua compagna nella vita, e addirittura transitare da Sanremo nel duplice ruolo di superospite dalla nave della Costa Crociere e di ospite duettante con la medesima Shari all’Aristo, Salmo uno e trino, quest’anno. Ecco, i già citati La Rappresentante di Lista, prima al Festival nel 2019 come ospiti di Rancore, poi in gara nel 2021 e 2022 rispettivamente con Amare e Ciao ciao, brani che li hanno letteralmente proiettati nei top player pop, decima canzone nella classifica dei brani più ascoltati nel 2022, a scrivere per i già citati Cugini di Campagna. Capire se questo sia un segno dei tempi, lo zeitgeist che dimostra come la globalizzazione abbia raggiunto anche la musica leggera, niente barriere, o magari un chiaro segno di come quella fluidità di cui tanto si parla, a volte perché spauracchio cui guardare con sospetto, a volte come conquista di emancipazione, sia finita anche nel mondo della discografia, ben più di quanto non faccia con le sue canzoni e la sua estetica Rosa Chemical, o più semplicemente se questo gran mischione senza senso altro non sia che l’incarnazione del gusto da speaker radiofonico di Amadeus, colui che sta traghettando Sanremo verso la finale del Festivalbar, non è dato saperlo. Sarebbe solo bello capire da uno come Al Bano, purtroppo Claudio Villa non è più tra noi per potergli porre il medesimo quesito, come vede gente come Lazza in gara, mentre lui si ritrova a vestire i panni del superospite che è così tanto un preludio al prepensionamento coatto, ci sarebbe sicuro da divertirsi nel sentirlo rispondere, altro che zeitgeist.