Elly Schlein ha interpretato la battaglia personale con Vincenzo De Luca e il suo sistema come la chiave di volta per prendersi il Partito Democratico. E la sfida della neo-segretaria dem al “Viceré” campano non è priva di chiari e giustificati motivi politici. Anzi, forse rappresenta un crocevia definitivo per il mondo del centro-sinistra italiano. Da un lato c’è il Pd comitato elettorale, sommatoria di feudi consolidati sul potere delle cerchie locali, che spesso nei territori vince o perde a seconda della qualità degli avversari più che per meriti propri. Un Pd che Aldo Giannuli, dopo il disastro lombardo e laziale, aveva definito “al capolinea”. Dall’altro c’è un mondo, rappresentato soprattutto da una base elettorale in graduale diminuzione ma tutt’altro che secondario che un po’ per mancanza di alternative, un po’ per genuina speranza e un po’ per continuità col suo passato vede un futuro per il partito oltre l’apparato di potere. E ha portato ai gazebo un milione di persone a marzo nella sfida tra Schlein e Stefano Bonaccini.
De Luca attacca Schlein in nome della prima idea di partito. Scavalca statuti, regole, rapporti di forza: in Campania, già nel 2018, L’Espresso, testata non accusabile di pregiudizi antiprogressisti, definiva “signoria assoluta” il sistema di De Luca. Un sistema che tra il ricordo della buona amministrazione di De Luca a Salerno, rapporti clientelari e nomine di vario livello ha garantito al “Viceré” nel 2020 il mandato bis alla guida della Campania con percentuali bulgare (69,48%). Ma che già nel settembre scorso ha mostrato tutti i suoi limiti: in Campania De Luca ha piazzato solo il figlio Piero alla Camera, vedendo bocciati tutti i fedelissimi candidati. In particolare il vicepresidente della Regione Fulvio Bonavitacola ha perso nella “capitale” di De Luca, Salerno, il consigliere regionale Luca Cascone a Eboli e la fedelissima di De Luca Paola Lanzara a Nocera. Schlein attacca il marchio da dominus di De Luca ricordando che il governatore campano ha fatto tutto quello che ha voluto sempre utilizzando il marchio Pd e, dunque, conformandosi alle sue regole. Le quali parlano chiaro: a nessun presidente di Regione è consentito fare più di due mandati e nella disponibilità del segretario sono le scelte sui gruppi parlamentari. I due oggetti del contendere sull’asse Schlein-De Luca: la giovane segretaria ha risposto niet alla richiesta di De Luca di un terzo mandato nel 2025 e ha “silurato” alla Camera il figlio dal ruolo di vicepresidente dei parlamentari dem, sostituendolo col cattolico Paolo Ciani, nemmeno iscritto al Pd. Schlein fa della sua debolezza la sua forza: conta sulle sottovalutazioni, le critiche e le ironie come strumento di distrazione da un processo di ricambio dei vertici dem che ha pochi precedenti negli ultimi anni.
Certo, forse sarebbe prioritario che la neo-segretaria mostrasse il suo pensiero su temi strategici e di alta politica, invece di limitarsi a provare a recuperare terreno all’opposizione andando a ruota di Giuseppe Conte. Ma indubbiamente la battaglia di principio sul fronte di De Luca, fondata sulla necessità per un partito di rispettare le regole del gioco comuni, mostra almeno uno spiraglio di tale pensiero: l’idea di tornare a parlare di politica e non di feudi. “C’è una sorta di onnipotenza di sindaci e presidenti di regioni”, ricorda Huffington Post. “Una volta eletti si sentono unti dal Signore. Scompare l’appartenenza, il partito di riferimento e ci rimane solo l’io trionfante. Possibilmente multitasking. Un ‘ghe pensi mì’ moderno senza rendere conto ad alcuni, ma solo a sé stessi. Alla loro carriera. E questo vale in tutti partiti”, ma ha il suo climax nel Pd. Non a caso Schlein ha sconfitto proprio l’emblema del governatore-MacGyver, Bonaccini, di cui peraltro è stata vice fino a pochi mesi fa. Le piazze della politica da un lato, le torri del potere dall’altro. Il ricambio ai vertici su un fronte, la continuità del sistema dall’altro. I giovani “anti-sistema” su un campo, i “cacicchi” dall’altro. Manca solo la contrapposizione tra sinistra radicale dem e centristi, perché De Luca è un ex PCI e non un ex Margherita. Per il resto nel duello Schlein-De Luca c’è tutto il simbolo del confronto che impedisce ai progressisti italiani di tornare ad essere un partito normale. Il fatto che il mondo “movimentista” della base che ha eletto Schlein e le rendite consolidate dall’esperienza non dialoghino e cerchino compromessi ma si scontrino come placche tettoniche dice molto dello psicodramma di una formazione che va di sconfitta in sconfitta. Ma è difficile trovare giustificazioni politiche al pronunciamiento di De Luca. Uomo che ha utilizzato il brand Pd finché gli è stato comodo. E ora sembra fermarsi criticando la segretaria per ragioni di principio. Un vulnus notevole alla credibilità politica della maggiore forza d’opposizione nazionale.