La sinistra italiana è così conservatrice e arretrata che fa passare la destra conservatrice per progressista. Nel bene e nel male, visto che il governo Meloni ha anche aumentato le tasse più di qualsiasi altro governo di sinistra (per chi è confuso, alzare le tasse è sbagliato). Ma così conservatrice la sinistra forse lo è sempre stata. Alla fine si è sempre specchiata nel suo opposto, il fascismo, che poi tanto opposto non era, soprattutto quando si trattava di pulsioni, di istinto, dell’aspetto più volgare e tignoso dell’ideologia (come quando Antonio Gramsci definiva i moderati “vermi” e “immondezze”). Ora finisce che una destra post-fascista e non fascista faccia per la giustizia quello che, come ricorda Filippo Facci su Il Giornale, hanno cercato di fare sia i governi di destra che i governi di sinistra, e persino i Radicali, che nel 2000 fecero sulla separazione delle carriere un referendum (che tuttavia non raggiunse il quorum).
Ai giornalisti e moralisti di bocca buona può stordire leggere le parole di un loro idolo, diventato da anni un santino dell’educazione civica a scuola, e cioè Giovanni Falcone: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo”.
 
    
            Le critiche di cui si lamenta Falcone sono le stesse mosse oggi su Il Fatto e dagli spalti di Camera e Senato: fine dell’autonomia dei pm, controllo del governo sui processi, invasione di campo della politica sulla giustizia e così via. Nessuno che dica le cose come stanno: garanzia che non possano esistere legami professionale tra chi giudica e chi accusa, nomine senza amichettismo, carriere distinte. Altra cosa: c’è chi, come Travaglio, sostiene che questa sia una riforma in memoria di Berlusconi, Craxi e Licio Gelli, cioè dei presunti o effettivi furfanti. A queste critiche risponde direttamente Carlo Nordio: “Vittoria dedicata a Berlusconi? No, vittoria dedicata a un’idea liberale di giustizia”. E cioè un’idea di giustizia che tiene a bada l’ego dei professionisti. Una giustizia cosciente dei suoi limiti che deve essere autonoma ma non può essere superiore alle normali dinamiche che caratterizzano la società civile e le altre istituzioni. Non siamo, dopotutto, una Repubblica fondata sullo strapotere della magistratura, anche se, di fatto, poi lo siamo stati.
La nostra classe intellettuale ha coltivato per decenni il catechismo del giustizialismo, del colpevole fino a prova contraria, e siamo cresciuti all’ombra del mito di Tangentopoli e Mani Pulite. Berlusconi è stato l’archetipo di tutti i mali e la sinistra si è modellata in chiave antiberlusconiana perseguendo la strada dei tribunali. Dovremmo fidarci della parola di Nordio? No, ma dovremmo diffidare di chi per anni ha sostenuto un’idea di civiltà basata su manette e idolatria verso i tribunali. Nuovi templi, le cui colonne erano gli articoli di giornale fatti di estratti di indagini e sentenze. Più che colonne, insomma, pile di scartoffie raccolte dagli amici dei funzionari, e che ora restituiscono il favore agli amici criticando una riforma che ovviamente complica la vita a chi attraverso la giustizia, così come i “professionisti dell’antimafia” di cui parlava Leonardo Sciascia, voleva solo far carriera.
 
             
     
         
                             
         
                             
         
                             
                     
                     
                     
                     
                     
                    