Chi di quel mondo, di quell’anno che ne dura diciotto, come ebbe a dire durante una puntata di Mixer Cultura del 1987, di quel ’68 più o meno morto e più o meno vivo, da non rinnegare e tuttavia da superare, ha scelto di raccontare lo “psicodramma”, e cioè una potenza tragica, e dunque estetica, incarnata perfettamente dallo “stile parigino”, che oggi, chi non ha memoria di quel tempo, può apprendere dai film della nouvelle vague e dalla nuova moda, da quella nostalgia intellettuale che ha travalicato i confini del modello hipster per tornare al modello impegnato, militante, di quel tempo; chi, cioè, alla sinistra non ha rotto i piatti in casa ma, con eleganza, ha indicato le crepe della porcellana prima sovietica e poi maoista; chi, infine, ha scritto ciò che in questi anni ha scritto Giampiero Mughini, può o no essere considerato un maestro? Non di quei cattivi, a volte rimasti impuniti e a volte no, sobillatori, i teorici incendiari, ma maestro di democrazia.
Che di Mughini si dica quello che altri non dicono: e cioè che è stato il vero nouveau philosophe italiano, incarnando in un certo senso ciò che Paolo Flores D’Arcais definiva “individuo libertario”. Innanzitutto, chi erano i nouveaux philosophes. Nient’altro che i giovani, si potrebbe dire, che lessero Arcipelago gulag di Aleksandr Solženicyn e non poterono più far finta di niente, che smisero di pensare il comunismo come un nuovo Eden. I nuovi cartesiani, il cui scetticismo dell’epoca servì a rifondare se stessi o, meglio, a evolvere fuori dallo steccato definito dai “padroni del pensiero” (come li definì uno dei nouveaux philosophes dell’epoca, André Glucksmann), Marx per esempio. E con quanto candore Mughini, durante l’intervista del 13 dicembre 2025 di Peter Gomez, ammette di aver letto poco, ma con grande partecipazione, Marx, e come non veda, oggi, ciò che Marx aveva profetizzato sul capitalismo e sulla società europea. Con che chiarezza d’animo non si definisce marxista, rifiutando l’ortodossia e ponendosi dunque in modo eterodosso (ma non eretico) rispetto tanto alla vulgata estremista quanto al merchandising socialdemocratico, ben rappresentato dalle colonnine nelle librerie Feltrinelli dedicate al Che o al “Natale rivoluzionario” (l’esposizione dei volumi di Lenin, Marx ed Engels).
Quel Compagni, addio (1987), oggi ricercatissimo e valutato nel mercato dell’usato centinaia di euro, che guarda dall’interno ciò che in Francia, dieci anni prima, venne affrontato per via teoretica da Bernard-Henri Lévy ne La barbarie dal volto umano (1977), è un ottimo punto di partenza per una sinistra zoppicante e soprattutto noiosa, impantanata nel brodo indifferenziato del democratismo senza idee, infantile e tribale, un democratismo basato sull’ignoranza politica. Perché Mughini da cinquant’anni nega qualsiasi fede verso le grandi narrazioni ma, a differenza del postmodernismo, non ne nega l’importanza. Fa anzi della cultura non una questione di egemonia, cosa che apparenta i gramsciani, gli amichetti e ora pura la destra di governo, ma una questione di piacere, di gusto, di “educazione”. Come l’avrebbe immaginata Rousseau, gigante oggi seppellito dalle scuole, che non lo sanno insegnare, e dagli intellettuali delle nuove generazioni, che no lo hanno mai letto.
Mughini ha superato con entusiasmo quasi avanguardista, e quindi ironicamente, le critiche che Deleuze riservava a chi restava inorridito dalla violenza stalinista, e cioè un “vivere da cadaveri”. È maturato ricordando con affetto gli amici persi e guadagnati negli anni in cui, per esempio, diresse Lotta continua (per garantirne l’uscita, per, dice in un’intervista ad Aldo Cazzullo, “una ragione liberale”: la libertà di stampa, di far circolare le idee e i fatti), fondò Il Manifesto, per poi allontanarsene. Amici, non compagni, che invita in una casa museo che non nega alla cultura umanistica, alla letteratura soprattutto, il suo statuto aureo, anzi santo. Non è cosa da poco se si guarda ai seguaci della French Theory (invenzione americana) e di Judith Butler, che verso la letteratura (e dunque verso Barthes, per dirne uno), nutrono più di qualche sospetto. Amici, non compagni, che possono leggere i suoi libri sulla storia d’Italia, un racconto tanto necessario quanto quello degli specialisti, che oggi stanno però sostituendo nel dibattito pubblico gli intellettuali generalisti. Chiediamoci, sulla scorta di Bobbio e Sartori, dei “lontani parenti” della teoria politica italiana, cosa possa essere oggi la democrazia. Se la passione Maga dell’esecutivo a cui corrisponde lo scimmiottamento Dem del centrosinistra, se la nostalgia per la Prima Repubblica, se l’antipolitica grillina (e mi sentirei di dire leghista). La risposta è ovviamente no, perché è solo pantomima, scarto, crisi questa “necessità ossessiva”, “questo darsi addosso reciproco” di cui parla nella sua Controstoria dell’Italia Mughini. Italia, “dove in mancanza di meglio le parti contrapposte (quali parti esattamente?) non la smettono di tirarsi calci negli stinchi”.
Bella figura per un Paese dei balocchi in cui non esiste eresia che non sia stata Risorgimento - e dunque senso della politica, speranza - finire a litigarsi un posto a tavola o in Parlamento; aver smesso di parlare con erudizione, aver smesso soprattutto, cosa ancora più rara (e rara, a dire il vero, anche in passato) di ascoltare con erudizione, aver cioè perso l’allenamento intellettuale che ha sì promosso le idee di molti esaltati brillanti, di molti teorici della “violenza proletaria” o, al contrario, della democratizzazione dell’Msi (perché, e anche in questo Mughini è stato per molto tempo un unicum a sinistra, si ricordi su Rai2 Nero e bello, la destra degli anni d’oro delle contestazioni, ha prodotto, al pari della sinistra, tanta buona cultura), ma ha anche innescato un nuovo corso della storia italiana, fatta di santi, di eroi, di poeti, di navigatori e tutto l’inventario neoclassico, ma anche di buoni ma pochi giornalisti culturali, amanti del dibattito, amanti della parola e, in definitiva, amanti della vita. È questo che la sinistra si è dimenticata. Mentre Giorgia Meloni con Atreju addomestica il senso comune, la gioia del Natale e di stare in famiglia, le casette con i prodotti natalizi e le piste di pattinaggio, circoscrivendo il dibattito e le polemiche a un solo anonimo tendone, la sinistra non sa più da che parte girarsi: non è più padrona delle sagre di Paese né dei giornali più letti, non sa che scrivere o cosa commentare, si è lasciata sfuggire la storia, ma anche l’arte. Se oggi Gaber dovesse scrivere cos’è la destra e cosa la sinistra, non saprebbe cosa elencare tra gli attributi della sinistra.
Allora sì, la sinistra riparta da Mughini, amante del calcio e del Futurismo, lettore dei grandi “rompicazzi del Novecento” e collezionista, concorrente del Grande fratello e scrittore raffinato (prendete almeno uno dei suoi trentasette libri), mai snob, poco incline alla superstizione politica, alle sbornie ideologiche, ma anche intollerante verso il “nuovo” costume degli italiani, quello che chiamiamo, sbagliando, Seconda Repubblica.