Giorgia Meloni sembra detestare chiunque non le somigli. E, si sappia ancora, non è l’unica a provare risentimento, se non proprio livore, per tutti noi che, per semplici ragioni di eleganza e stile, non possiamo perdonarle di non avere mai mostrato discontinuità rispetto a una sua, interamente sua, matrice neofascista, temo ostentata come fosse un peluche festivo. Altrettanto meschini, anzi, “rosiconi” risultiamo agli occhi dei suoi molti instancabili sostenitori, cioè in chi ha votato il suo miracoloso partito che, fin dal nome, mostra pretese familiari, forse anche familistiche, quasi fossimo in presenza di un patto tra consanguinei, sorta di prima comunione e cresima identitarie: Fratelli d’Italia. Implicitamente, assodata la narrazione da rotocalco popolare e populista, perfino “sorelle”, in questo caso non meno italiane, cristiane, convinte che prima d’ogni altri debbano essere gratificati i nostri dirimpettai connazionali, implicito disprezzo verso l’immigrati, concepiti come immondizia umana, indesiderabili.
Giorgia Meloni, come molti fanno inutilmente notare, dimentica, forse strumentalmente, di trovarsi da tre anni in una posizione apicale, addirittura alla presidenza del Consiglio, ciononostante tutto ciò non le impedisce di attribuire agli altri, ai cosiddetti, sempre parole sue, “rosiconi” e “sinistri”, “residenti delle ZTL”, appunto, i propri limiti, i doverosi compromessi che realismo politico impone; d’altronde il vittimismo risentito è tra le armi principali di chi, notava il liberale Ennio Flaiano, vive in uno stato di perenne profondo senso di inferiorità culturale, oltre che politico. Non si dimentichi che agli occhi di molti il luogo ideale di chi non abbia mai marcato distanza dalla memoria dell’orbace mussoliniana prende il nome di “fogna”. Per antifrasi, gli stessi “camerati”, anni addietro, ritennero giusto chiamare una loro fanzine altrettanto identitaria proprio “La voce della fogna”. Non sembra che, diversamente da Gianfranco Fini, abbiano mai definito il fascismo “male assoluto”. Quanto ai rapporti con la “comunità” non si sono mai interrotti.
Accanto al vittimismo temperato di rabbia mal trattenuta, il Minculpop intestato a una creatura fantasy di Giorgia Meloni da settimane ormai lavora ad ampliare le sale del proprio pantheon già prossimo scenograficamente a una cripta, includendo accanto all’immaginario già sufficientemente citato – “Il Signore degli Anelli” di J. R. R. Tolkien, e ancora “La storia infinita” di Michael Ende: da cui trarre il “logo” Atreju per le proprie manifestazioni-vetrina-showroom – figure del tutto improprie rispetto al patrimonio genetico iniziale.
L’appropriazione di Antonio Gramsci, in funzione della legittimazione di una propria egemonia venata di revanchismo tuttavia non meno nibelungico come già nelle premesse “non conformi”, è in questo senso esemplare, ed essendo condotta in un contesto segnato dalla post-verità dell’Intelligenza artificiale che tutto concede e consente appare in definitiva irrilevante che storicamente non possano esserci punti di contatto da il promotore dell’“Ordine Nuovo” nei giorni dell’occupazione armata delle fabbriche torinesi, Gramsci, e chi giunge invece dal “bunker” di Colle Oppio, alle cui pareti figuravano semmai i ritratti votivi di Corneliu Codreanu, leader ultranazionalista e ideologo antisemita romeno de la “Guardia di Ferro” o di Léon Degrelle, quest’ultimo un politico belga, fondatore del rexismo, movimento nazionalista di ispirazione ultra-cattolica, pronto a virare ideologicamente verso il fascismo, combattente nella seconda guerra mondiale nel contingente vallone delle Waffen-SS. Oppure, in un caso più “colto” ed estetizzante nel controluce mortuario della destra “sublime”, suggerendo quindi temperature eroiche, Robert Brasillach, scrittore francese collaborazionista e come tale fucilato nel febbraio 1945 al forte di Montrouge. Sorge perfino il dubbio che il culto di Ezra Pound cui molta destra fa riferimento, come fiore all’occhiello al posto delle “cimice” del trascorso Pnf, non ne riguardi con esattezza l’opera poetica straordinaria, si pensi alla complessità immaginifica dei “Cantos”, semmai l’immagine ben più prosaica e vittimistica del “prigioniero in gabbia”, catturato dai partigiani italiani e consegnato ai militari statunitensi che lo internarono nel campo di prigionia di Coltano, nei pressi di Pisa.
C’è anche il caso del non meno improbabile tentativo di appropriazione di Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, cineasta, critico letterario, semiologo civile, intellettuale (anzi, “intelletuale”, così come scrisse un anonimo segretario di sezione friulana sulla sua tessera di militante comunista del 1947), polemista “corsaro” e “luterano” e legato “sentimentalmente” all’epica resistenziale. Basterebbe in questo caso leggere la sua dichiarazione di voto del giugno 1975 per abbattere ogni dubbio: “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947. Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965 e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista, perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro”.
Rispetto a un possibile Pasolini “conservatore”, se non “reazionario” o addirittura “fascista e delatore”, come ha suggerito Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Cultura alla Camera - “Sì, in pochi lo sanno. E tuttavia è un fatto. Non certo una mia opinione” - ritengo che basti citare un remoto “comunicato stampa” della Giovane Italia, organizzazione juniores del Msi, stilato intorno al 1968, per “manifestare contro il clima di sporcizia morale che ha invaso il cinema italiano servo del P.C.I. e dei preti del dialogo”, dove Pasolini viene indicato come “vate dei porci” per rispondere nel merito senza fatica alcuna. Evidentemente anche in questo caso “le radici non gelano”, semmai si prova a rimuoverle. Il documento che trovate qui allegato lo abbiamo ricevuto dal nostro amico Umberto Croppi, intellettuale, lui sì, ingovernabile che tuttavia giunge da Destra.
Ma è forse ciò che definiremo “presepe familiare” è ciò che più di ogni altra cosa restituisce il nucleo del consenso che la Meloni riesce a ottenere: come ho avuto modo di notare nei giorni scorsi anche altrove, l’apparizione della madre di “Giorgia”, Anna Paratore, tra il pubblico di Atreju è in questo senso rivelatorio ed esemplare, Anna Paratore ci consegna infatti sia l’immagine di una Madre Coraggio capitolina sia, per postura e stazza (e non sembri “body shaming”, semmai un dato oggettivo) la sagoma di Sora Lella che accompagna Mimmo al seggio elettorale in “Bianco rosso e Verdone”, così in un paese mai pienamente pervenuto alla convinzione che Dio Patria e Famiglia, categorie queste presenti nella pochette meloniana, siano valori regressivi, proprio di un’angustia piccolo-borghese soffocante proprio di un tempo antecedente le più significative conquiste civili. Temo invece che, al contrario, l’immagine della Ur-Madre Anna nel caso di “Giorgia” sembra essere un sigillo ulteriore di verace “autenticità”. In verità, ci sarebbe da citare altrettanto, sempre lì ad Atreju, la presenza tra il pubblico dell’ex compagno, nonché padre della figlia Ginevra, Andrea Giambruno… Irrilevante che la piccina sia nata fuori dal vincolo matrimoniale. La Destra non sottilizza molto in tema di morale confessionale quando si tratta di sé stessa; il peso del sentire clericale lo riserva infatti ad altri, magari evocando l’uso del “Maalox” per questi ultimi.
Peccato che a dispetto di questo deposito di retorica populista da sottoscala, a Sinistra prevalga il timore di pronunciare parole che possano indispettire, o ancora peggio amareggiare, i perbenisti, lasciando agli altri il monopolio di una presunta irrefrenabile libertà, così Donald Trump potrà letteralmente continuare a “cacare in testa” in effigie a chiunque – testuale come da video postato tempo addietro - tra i sorrisi impliciti della cara “Giorgia”.