Alle 18:45 di domenica 14 dicembre 2025 (9:45 in Italia) due uomini hanno ammazzato almeno sedici persone, ferendone altre quaranta. Questa è la versione edulcorata, incolore e ipocrita di quanto avvenuto a Bondi Beach, una delle spiagge più famose di Sidney. È comunque migliore della versione che Abcnews Australia ha dato: e cioè nessuna, per almeno ventiquattro ore dall’attacco terroristico. La versione più corretta di questa storia è in realtà più semplice e lascia meno spazio alle ambiguità, ma è anche socialmente controversa per molti: il 14 dicembre 2025, alle 18:45 (9:45 in Italia), due uomini hanno ammazzato sedici ebrei, ferendone altri quaranta, durante la celebrazione dell’ Hannukkah. È l’attacco terroristico più mortale avvenuto sul suolo australiano e sicuramente il peggior pogrom anti ebraico dal 7 ottobre. Perché, vale la pena ricordarlo, nonostante l’orrore che Israele ha alimentato per oltre due anni a Gaza, quanto accaduto quel giorno non è nient’altro che una caccia all’ebreo. Non è “resistenza”, non è un “atto eroico”, non è una reazione allo strapotere sionista sul Medio Oriente e nei territori palestinesi (uno strapotere che, tuttavia, non va negato o minimizzato).
Quanto avvenuto il 7 ottobre è puro antisemitismo, in una forma che molti ignorano e, onde evitare di rompere la facile equazione Israele-cattivi Palestinesi-buoni, continuano a ignorare: l’antisemitismo arabo. Un odio radicato e secolare, raccontato per esempio dallo storico Georges Bensoussan (nato in Marocco), responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi. Nel suo brevissimo e fondamentale Gli ebrei nel mondo arabo: l’argomento proibito riporta, documenti alla mano, tutte le forme di discriminazione nei confronti degli ebrei, ora negate da chi vi racconta che prima di Israele tutti i popoli vivevano in pace nella società ottomana.
Non solo, smonta la tesi dell’antisionismo come risposta naturale all’oppressione israeliana (Bensoussan ricorda: “Generalmente ci dicono che le società ebraiche d’Oriente sarebbero declinate con il conflitto arabo-israeliano e che l’antigiudaismo arabo sarebbe una ricaduta del conflitto palestinese. Ora, questa tesi è smentita da moltissimi testimoni occidentali riguardo agli anni 1890-1940, siano essi amministratori coloniali, militari, medici, giornalisti o viaggiatori. Tutti raccontano della virulenza di un sentimento antiebraico, evidentemente variabile a seconda delle regioni e dei periodi, senza connessione con il «problema palestinese». La realtà è che il naufragio è iniziato molto prima dell’emergere del sionismo; è iniziato quando, attraverso l’alfabetizzazione e un timido processo di occidentalizzazione, le società ebraiche si sono messe a scavare un divario tra sé e le società arabe”).
Infine, e questo è fondamentale, denuncia il modo in cui l’Occidente ha scelto di rimuovere questa consapevolezza, di amputare la memoria storica della violenza e dell’odio non occidentale. Questi tre sembrano, tuttavia, degli elementi centrali della nuova ondata di intolleranza nei confronti degli ebrei che si è allargata proprio a partire dall’operazione di Hamas del 7 ottobre: la violenza è sempre coloniale, dunque occidentale; l’antisionismo non è antisemitismo; Israele ha avvelenato quelle terre in cui convivessero pacificamente per secoli arabi ed ebrei. Sotto questo tridente ideologico non sopravvive nulla: né il fatto che il terrorismo di Hamas sia stato di ispirazione agli attentatori dell’11 settembre, né che l’odio antisemita è certificato nel Manifesto originario di Hamas. Nè il fatto che gli ebrei, da due anni a questa parte, sono tornati a essere un bersaglio nel mondo, con allarmi ed emergenze dichiarate dai vari ministeri degli interni in tutto l’Occidente. In Germania, in Francia, negli Stati Uniti, nel Regno Unito. E anche in Australia, dove ora gli ebrei tornano a morire in quanto ebrei, ancora una volta durante un momento di festa. Perché l’antisemitismo, come il nazismo, si nutre della libertà, della felicità, della prosperità altrui, e colpisce quando si danza, quando si prega, quando si gioisce.
È in questo preciso contesto che alcuni silenzi valgono più di altri, soprattutto se si è megafono di una narrazione militante come quella pro-Pal. Francesca Albanese, il cui merito è stato quello di fondere insieme un’analisi tecnica, giuridica, economica, del massacro in corso a una cultura militante sostanzialmente antioccidentale, new age, esotica, che da quarant’anni seduce la sinistra, non ha scritto nulla sull’attentato antiebraico avvenuto a Sidney. Perché? Se a distanza di oltre ventiquattro ore non una parola è stata pubblicata dall’altrimenti onnipresente Albanese, qualcosa si può pur dire. Per esempio che nell’arco di pochi giorni è riuscita a essere l’ospite di Tucker Carlson, il giornalista che definì Darryl Cooper, l’ospite che durante la sua trasmissione negò che i nazisti avessero pianificato di sterminare gli ebrei, “il migliore e più onesto storico popolare degli Stati Uniti” (e che poco prima di intervistare la relatrice speciale ha dato spazio al filonazista Nick Fuentes); e la figura più importante ad aver definito un “monito” per i giornalisti l’attacco alla redazione di un quotidiano italiano. E visto che non c’è due senza tre, fa passare almeno ventiquattro ore prima di condannare il peggior massacro antisemita dal 7 ottobre 2023. Ancora una volta: perché?