La sensazione che il piano di pace di Trump fosse una soluzione di tipo colonialista ha preceduto la pubblicazione del piano stesso. Anche perché, già dagli incontri del presidente Usa con l’ex primo ministro inglese Tony Blair, qualcosa ci riportava al primo Novecento: forse l’idea di un “protettorato britannico di Palestina” (appunto gestito dagli inglesi, in questo caso pareva per conto dell’America). L’evidenza che si trattasse di un piano capitalista era invece persino annunciata da Trump stesso e da tutti coloro che a Gaza sognavano, ben prima di questa tregua, una “riviera”, un’occasione immobiliare. Dietro al colonialismo e al capitalismo ci sarebbe però un atteggiamento persino peggiore, perché primordiale (e per alcuni profondamente machista e patriarcale): il paternalismo, cioè l’idea che l’Occidente debba fare da baby-sitter agli arabi. Questa idea si basa su una sorta di superiorità morale o maturità della società occidentale (europea, inglese e statunitense) che gli attivisti anticoloniali rifiutano categoricamente. Segue logicamente allora che il paternalismo implichi il suprematismo. Insomma, l’accordo di pace proposto (o sarebbe meglio dire “imposto”?) da Trump è un patto maschio, bianco, etero e patriarcale. Dunque razzista, assertivo, sopraffattore e basato sul punto di vista del privilegiato.
Ed è proprio così. Non è difficile dimostrarlo: una delle critiche principali fatte da quasi qualsiasi intellettuale filopalestinese è questa: dove sono i palestinesi? Chi li rappresenta in questo patto? Che fine hanno fatto? Perché nessuno li ascolta? Così Francesca Albanese: “Troppi assenti, a partire dai palestinesi cooptati dai tecnocrati. La pace senza diritti non funziona”. Ma il punto è proprio questo. Forse, invece, funziona. E anzi funzionerebbe meglio di una pace “piena di diritti”. Stiamo sostenendo un accordo paternalista, capitalista e colonialista? Sì. Partiamo intanto da un fatto: a Gaza si festeggia, perché la guerra potrebbe essere finita. Non vogliamo chiamarla guerra? Il genocidio, il genocidio potrebbe essere finito. I palestinesi ringraziano chi ha manifestato, perché la pressione civile sui governi è stata massiva ed epocale. Domani potremo decidere a chi dare il merito, a Trump, che oggettivamente ha (forse) chiuso questa storia, alle flottiglie, al movimento di cittadini. Il fatto è che in Medio Oriente gioiscono perché non solo vengono liberati gli ostaggi israeliani e palestinesi, ma tornano i camion degli Onu pieni di aiuti, Hamas potrebbe farsi da parte e Israele ritirerà l’esercito dai territori distrutti.

Certo, i palestinesi non escono bene da questi due anni. Chiariamoci, non sono vittime assolute, poiché il modo in cui si è arrivati a questo massacro è evidente: accordi di pace abortiti nel corso di oltre settant’anni, soprattutto da parte araba, attacchi terroristici (Prima e Seconda intifada) e, ovviamente, il 7 ottobre, il più grave pogrom ebraico dall’Olocausto. Ma sono vittime relative, e certamente le vere grandi vittime di questo biennio di distruzione totale. Per questo è normale empatizzare con loro. La colpa in ogni caso, come ricorda lo storico Jean-Pierre Filiu, uno dei pochi a essere entrato a Gaza durante la campagna israeliana contro Hamas, molto critico verso Netanyahu e ciò che ha creato (“un paesaggio dantesco”), è prima di tutto di Hamas, un gruppo terroristico che ha posto le condizioni per il massacro dei due anni successivi. Questo per dire cosa: semplicemente che Israele, di fatto, ha vinto una guerra. E chi vince le guerre avrà più vantaggi di chi le perde. Anche se i civili dovrebbero essere sempre considerati innocenti, è un fatto storico innegabile che gli Stati sconfitti, e quindi anche i cittadini di questi Stati, debbano accettare condizioni maggiormente favorevoli per i vincitori che non per se stessi. È questo il significato politico della sconfitta: un adeguamento alle condizioni del più forte. E poco importa che Israele abbia (forse) commesso un genocidio. Quello che la Germania subì dopo gli accordi di Yalta e i protocolli di Potsdam (1945) fu il risultato della sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale e non del genocidio colpito. Visto che Israele non ha perso questa guerra, è difficile immaginare che potrà subire, in relazione agli accordi di pace, un trattamento peggiore di quello prospettato.
Quindi, abbiamo già due indicazioni che dovrebbero farci apprezzare l’accordo di Trump. Primo: i palestinesi e gli israeliani sono felici di questa tregua, indipendentemente da come sia stata raggiunta (se per merito di Trump o dei movimenti pro-Pal). Secondo: Non è realistico immaginare degli accordi che impongano a Israele le condizioni che storicamente hanno sempre subito gli sconfitti e non i vincitori. E un trattato realistico è sempre migliore di un trattato immaginario. Torniamo più precisamente al dubbio a cui abbiamo accennato sopra: e se una soluzione colonialista, paternalista e capitalista fosse, effettivamente, la cosa migliore che potrebbe accadere ai palestinesi? Esistono alcuni saggi provocatori che provano a tracciare i lati positivi del colonialismo. La costruzione di infrastrutture, la stabilizzazione di sistemi di governo, l’organizzazione della vita politica ed economica di un Paese secondo standard internazionali (cioè secondo standard di mercato). Questo non cancella le cose negative. Ma in un contesto come quello coloniale ci sono state effettive “sanificazioni” degli ambienti pubblici e sociali di una comunità.
Quello che gli anticolonialisti sottostimano è la portata degli eventi storici che oggi rifiutano, in parte a ragione e in parte no. Per fare solo qualche esempio: è nel contesto del colonialismo che si sono poste le condizioni per l’abolizione della schiavitù (l’indipendenza degli Stati colonizzati avvenne spesso decenni dopo l’abolizione legale della tratta degli schiavi). Non è un merito diretto, forse, ma una conseguenza dell'evoluzione sostanziale della società coloniale. Può sembrare una cosa assurda da dire, persino inaccettabile, ma questo perché il dibattito pubblico su temi come schiavitù, razzismo, imperialismo, femminismo e molto altro è diventato inerte, sterile e spesso dogmatico. Il punto non è esaltare il colonialismo, ma è tenersi a distanza razionale sia dalla demonizzazione caricaturale di un fenomeno storico secolare, sia da elogi arbitrari (che spesso non tengono conto della distinzione, almeno formale, tra due colonialismi, quello prettamente moderno, e quello romantico-novecentesco; la discussione è lunga, quindi chi vuole prenda questa parentesi come stimolo ad approfondire in modo autonomo questa storia). Torniamo alla domanda iniziale: in un momento in cui Gaza si trova a dover fronteggiare il vuoto politico causato dalla guerra civile tra partiti (e dalla politica di destabilizzazione messa in campo da Netanyahu nel corso degli ultimi decenni) e una distruzione pressoché totale di edifici e infrastrutture, cosa è meglio per quel territorio e per chi deciderà di restarci? Il paternalismo occidentale, con garanzie economiche e progetti che vedranno coinvolti anche molti Paesi arabi, sembra una buona risposta. Sicuramente una risposta più realistica di altre utopie irrealizzabili.

Prendiamone una, per esempio: l’utopia socialista. L’idea, spesso non esplicitata, ma sottesa al discorso di molti filopalestinesi, è questa: l’indipendenza dei palestinesi, il riconoscimento di uno Stato palestinese, la libertà totale di azione rispetto ai desiderata non solo di Israele ma dell’Occidente, potrebbero spingere i palestinesi a costruire una società inedita, virtuosa, socialista. Questa è la speranza di molti intellettuali, che sognarono lo stesso destino per altri Paesi, tra cui l’Iran e l’Algeria, con il solo risultato che abbiamo sotto gli occhi, e cioè la restaurazione di regimi, né socialisti né liberali. Una seconda riflessione. Esistono modelli politici e sociali auspicabili per Gaza già presenti nei vari Paesi arabi? Come ha sostenuto lo scrittore Salman Rushdie, oggi uno Stato palestinese sarebbe uno Stato talebano. In realtà, questo è vero solo se la creazione di uno Stato del genere fosse affidata a gruppi terroristici e a quegli Stati che hanno sfruttato Hamas come proxy per la guerra contro Israele (per esempio l’Iran). Quindi, anche i sostenitori della creazione di uno Stato palestinese dovrebbero essere favorevoli a una mediazione occidentale affinché si possa creare un ordine politico democratico e non incline, tra le varie cose, alla persecuzione degli omosessuali o alla discriminazione delle donne.
Altro fattore fondamentale: cos’è la Striscia di Gaza? La storia è complessa, ma se divisa in macro-epoche potrebbe essere sintetizzata così: un territorio prima ottomano (Ottocento), poi britannico (fino al ’48), poi di fatto egiziano (fino al ’67), infine israeliano e palestinese (con molte limitazioni dovute al controllo materiale da parte di Israele dei confini, delle vie di scambio e comunicazione eccetera). Davvero la Striscia di Gaza ha fatto esperienza in passato di un’indipendenza, perduta in un secondo momento per colpa di Israele? Quando si dice che i palestinesi non solo vengono vessati da Israele, ma sono sistematicamente abbandonati dai loro fratelli arabi, si sta sostenendo esattamente questo. Gaza è lasciata a se stessa, almeno da cinquant’anni. In queste condizioni, davvero l’ipotesi di un coinvolgimento occidentale a favore dell’indipendenza, mediata da organismi internazionali (che non lo fanno per bontà ma per interessi, questo è ovvio) è uno scenario inaccettabile? E soprattutto, quali sarebbero, concretamente, le alternative?
