L’auto che sfreccia ad altissima velocità sul Grande Raccordo Anulare di Roma e un video notturno, ripreso dal passeggero della supercar dove sul cruscotto si legge una velocità di quasi 300 chilometri orari. Poi le urla e lo schianto, con le immagini che terminano bruscamente. In sottofondo musica rap. Sono tremende le immagini di un filmato divenuto virale sui social che mostra i minuti precedenti a quelli il cui il conducente della vettura, una Audi R8 coupè, ha perso la vita. La tragedia si è consumata la sera di lunedì scorso e a perdere la vita un 22enne romano di origini sinti, Orus Brischetto. Dopo lo scontro contro il guardarail, l'auto si è cappottata più volte per poi carambolare contro un'altra vettura, guidata da una donna incinta, che non ha riportato serie conseguenze. Drammatiche invece le condizioni dei due giovani a bordo dell'Audi. Il conducente e il suo amico sono stati estratti dalle lamiere dai vigili del fuoco della squadra 21 A di Frascati. Poi la corsa in ospedale e, arrivato al policlinico di Tor Vergata, il cuore del 22enne ha smesso di battere a causa delle ferite riportate. Il suo amico, che poco prima aveva girato il video, è stato portato al policlinico Casilino in codice rosso e si trova ora in prognosi riservata. Una vicenda che sta facendo discutere, al di là della folle velocità che ha portato allo schianto, visto che ci si interroga sulla “moda” che circola in particolare tra i giovani di immortalare queste “imprese” a uso e consumo dei social. A provare a dare una spiegazione logica, che può essere interpretata anche da monito, ci ha provato il noto psichiatra Paolo Crepet.
Intervistato su La Stampa, ha spiegato che “i due atteggiamenti (la folle velocità e il filmare tutto, ndr) sono le due facce dello stesso problema e la loro somma è la nullità. La mia non è una critica ai giovani ma a noi che non li abbiamo educati a sperare, a sognare. Di qui la tendenza a sfidare la morte con l’aggravante del video, della rappresentazione pubblica come conferma della propria identità. Noi adulti dovremmo chiederci se davvero non c’entriamo nulla. Abbiamo cambiato la T-shirt, non l’anima. In fondo queste tecnologie digitali le abbiamo inventate noi”. Un vero e proprio j’accuse, non tanto alle nuove generazioni, quanto ai genitori: “La sfida alla morte non è contemporanea. Dietro si nasconde l’incapacità di avere una speranza, un sogno. Sono sicuro che se avessi potuto chiedere al giovane morto sul Gra quale sogno avesse mi avrebbe risposto: ‘Correre’. Senza alcuna possibilità di guardare al futuro, di perseguire un sogno vero”. Anche per questo, per lo psichiatra, dietro a tanta spavalderia spesso si nasconde una enorme fragilità: “Sicuramente. Non solo perché si guarda solo al ‘qui e ora’, ma lo si fa in virtù della pubblicità di certi comportamenti sui social media. Non è la prima volta che negli ultimi anni assistiamo a un terribile incidente stradale mentre ci si fa riprendere in un video da pubblicare. E tutto per che cosa? Per ottenere dei like in più. Chi vive in virtù dei like non è certo più forte degli altri ma anzi è più debole. Peraltro dura tutto poco: le storie su Instagram e Tik tok durano appena 24 ore. È come pensare di fare il giro del mondo in 80 giorni e invece finisce tutto in 24 ore. Si tratta di gesti in cui non solo non ti assumi responsabilità per te stesso, ma neppure per gli altri. È solo un caso, infatti, che in questo incidente gli altri due ragazzi siano rimasti vivi. E noi adulti dovremmo interrogarci su cosa abbiamo sbagliato”. E avanza un esempio che ci coinvolge tutti: “Per esempio allentando il rapporto simbiotico che i bambini e i preadolescenti hanno con il telefonino. Recentemente si è rivolta a me la mamma di un bambino di 9 anni che era sempre incollato ai social media sul cellulare: la donna gli ha tolto l’apparecchio e il figlio ha spaccato tutto ciò che gli capitava a tiro nella sua cameretta. Siamo di fronte a una dipendenza totale come quella dalle droghe”.