Non so se capiti anche a voi di svegliarvi con la sensazione che la vostra bolla su Facebook vi stia stretta. Stamane mando giù l’ennesimo groppo di noia per la reazione scandalizzata di tanti ayatollah del web: sul banco dei colpevoli la tamarraggine antisportiva dei calciatori argentini in tripudio adrenalinico, in particolare Emiliano “Dibu” Martinez e la sua posa fallica: pure uno studente Erasmus arriverebbe ad associare quel trofeo a forma di mano a una banalissima minchia. Di fronte a certa protervia di solito soprassiedo, scorro il thread, individuando le logiche del pensiero topic del giorno, e poi mi faccio una sega giusto per alzarmi: il modo più pacifico che conosco per non nuocere alla società e non ricorrere a droghe o psicofarmaci. Ma stavolta colgo un astio sempre più acuito nei confronti di Messi e compagni che mi lascia stranito, viste le affinità culturali tra noi e quel popolo di rumorosi italiani sgarrupati che parlano spagnolo. Una pulsione che supera addirittura il consueto e imbolsito anti-francesismo. Sarà che ormai siamo abituati a veder esibirsi ai mondiali solo i nostri arbitri e cronisti.
Non sono qui per avere ragione o provocare, ma solo per riflettere sulla nostra natura di potenziali hater: che sia l’ultimo baluardo rimasto per mettere in mostra anche noi l’irrazionale, quella parte viscerale, patriarcale, scurrile e razzista, quasi a liberarci dalla paura di sembrare bestie che ogni attimo di social incute in noi. Quale frustrazione repressa ci spinge a immolarci sui nostri touch screen per blaterare il nostro irrilevante parere contro icone miliardarie, senza renderci conto che siamo buffi moscerini che nessuno nemmeno schiaccia. Ne ho lette di tutti i colori sui poco eleganti vincitori: che sudano, che hanno i peli sulle spalle e che quello è il Dieci più sopravvalutato nella storia dell’umanità. Questo però è il primo Mondiale iperconnesso, in cui i protagonisti trollano e provocano, soprattutto i brutti e sporchi argentini - calciatori e tifosi al contempo - che hanno creato empatia digitale con 45 milioni di sfegatati connazionali, molti dei quali ai limiti dell’indigenza e che proiettano in loro una svolta. Pare che a Doha ne siano arrivati ottomila, ipotecandosi la casa, fanatici e senza biglietto.
Ed è proprio questo insolito crudelissimo mondiale, edificato sul sangue dei paria senza nome del terzo mondo, a mettere in mostra un certo risentimento e rivalsa da parte degli ultimi della fila. Si è visto a Bruxelles, con l’estasi vandalica di tanti giovani d’origine magrebina delle periferie, impossessati dal carattere ancestrale di uno sport- inventato da elitari Lord inglesi - ma che ha attecchito nell’anima profonda dei più diseredati. È dal 2002 che una nazionale sudamericana non riusciva a vincere questo trofeo a forma di coscia di pollo. Addirittura tanti brasiliani si sono congratulati coi loro acerrimi rivali, per mera fratellanza continentale, con unico bersaglio: il nostro piedistallo geopolitico. Siamo l’oasi del pianeta più ricca e democratica, meta agognata, per tanti ventenni in cerca di trisavoli europei per fuggire dalla crisi economica e dall’abisso sociale che, da quelle parti, può significare un bambino strafatto di colla che ti spara iper un iPhone di terza generazione. Che poi è la storia di tanti calciatori, figli di famiglie a dir poco umili, che con la pedata de Dios si sono emancipati dal barrio. È il destino di “Dibu” Martinez, prelevato a 17 anni dall’Arsenal. E che, dopo un decennio di panchine e retrocessioni, stava pure per ritirarsi. Ma un colpo di scena hollywoodiano gli ha dato la chance di arrivare al podio più importante, dopato da sponsor e sceicchi che si sono comprati l’intero giocattolo.
Resta questo fotogramma screanzato, in un mese in cui bisogna costringersi a essere più buoni e piazzare regali sempre più economici sotto l’albero. Non so se sia la malinconia nel sentirsi sempre più poveri o l’amara consapevolezza di essere cani di Pavlov, pulsioni automatiche da dietro un pezzo di vetro, nella strenua emissione di status per far salire quel numerino col pollice in su che ce lo fa sentire grosso: ma quella posa fallica è dedicata agli underdog di tutto il pianeta. Alla faccia dei pensatori di Facebook, quei neo-Saviano che non ce l’hanno fatta - abili nello scatenare shitstorm corretti - per non parlare delle nostre testate perbene che la stanno ancora esecrando e che fanno notare come pure l’emiro qatarese Tamim bin Hamad si sia ahimè corrucciato. In effetti da quella foto sembra proprio che il pene gli possa piacere, eccome. E chiamiamolo finalmente cazzo! Ben venga la libera pulsione, un coming out planetario. Dopo un mese di vergognosi divieti omofobi e misogini - avvallati dalla schifosa complicità delle nostre economie - ci voleva la furia peona di un portiere pazzo, per regalarci quel brivido che solo una mano non renderebbe memorabile.