Delle tazze che inneggiano all’uccisione dei propri figli – “Io un po’ la Franzoni la capisco” - io non volevo occuparmene. Una volta, in presenza di uno stupido o di una stupidata le nostre nonne e le nostre mamme ci dicevano di lasciare perdere, perché non ne valeva la pena. In termini più moderni: “don’t feed the troll”. Purtroppo, da quando siamo sottomessi al dominio dei social, lo stupido o la stupidata sono diventati un’opportunità: c’è gente che la mattina si sveglia e come prima cosa va alla ricerca di stupidate apposta per indignarsi, sperando di azzeccare l’hashtag giusto e scatenare una bella shit storm, per poi vantarsene in ufficio. Si chiama economia dell’indignazione, e ha come oggetto sociale la stupidità umana, che invece di essere ignorata come ci insegnavano una volta, viene promossa a merce preziosa, imbattibile mezzo per guadagnare visibilità. Ora: immaginarsi una stupidata più grande di queste tazze, tirate fuori in occasione della Festa della Mamma come mossa di marketing a effetto, è praticamente impossibile; dunque, sarebbe stata cosa buona e giusta passare oltre e fare finta di niente. Poi però ho letto quanto dichiarato da tale Annagina Totaro, che a quanto ho capito ha a che fare con l’azienda produttrice di questo fantastico gadget. La signora poteva cavarsela con le scuse di rito, la battuta non riuscita, e in qualche ora tutto sarebbe passato, ci si sarebbe indignati per qualcos’altro, anzi, qualche buontempone avrebbe anche tirato fuori la difesa del black humor o la libertà di espressione, e domani nessuno se ne sarebbe ricordato. E invece la signora ha dichiarato testualmente: “Qui nessuno sta scherzando su una tragedia o tantomeno sta facendo ironia. Si tratta di una riflessione, punto. Accettare un atteggiamento, non un’azione. Noi un po’ la Franzoni la capiamo ma non giustifichiamo assolutamente quello che ha fatto”.
Ecco, una risposta del genere, che setta un nuovo record mondiale nella classifica del paraculismo, travalica i confini del carmina burana non riuscito e diventa qualcosa di diverso e, soprattutto, di pericoloso. Perché dietro a questo tentativo di dare una patina sociologica a una bravata di marketing riuscita male, c’è la strizzata d’occhio a tutto quell’humus culturale moderno che dipinge i figli esclusivamente come un peso, un problema, una limitazione: ormai non passa giorno senza che una virago del neofemminismo alle vongole non salga su un pulpito per spiegarci che razza di stronzi siano i bambini e quanto sia bella la vita senza di loro. Era sicuramente sbagliato pensare che la realizzazione femminile passasse necessariamente dalla maternità; ma è altrettanto sbagliato far passare il messaggio opposto, come sta accadendo in questo momento, rappresentare la maternità soltanto come una questione di privazioni.
La maternità è una scelta, e le scelte si rispettano: sogno un mondo dove si possano avere figli o non averne senza derby, senza buoni e cattivi, senza che chi ha fatto, per qualunque motivo, la scelta opposta, debba sentirsi in diritto di spingerti giù per la gola le proprie ragioni. Ma un mondo del genere, ahimè, non esiste, e la ragione – come sempre - è nel mercato. La maternità è un settore di mercato ma anche la non-maternità lo è diventata, e come alle mamme si vende il completino per il nascituro alla non-mamma si vende il libricino che le spiega quanto è stata giusta la sua scelta, il podcastino dove si parla di un bambino come di un essere posseduto dal demonio, la tazzina spiritosa che inneggia alla Franzoni. È il mercato, bruttezza, che di mamme e non-mamme se ne frega, e punta solo a fare soldi. Ecco, io credo che contro questo atteggiamento, le donne - tutte le donne, a prescindere dalla loro scelta - dovrebbero ribellarsi. Quelle tazze ve le tireremo dietro.