Io, cittadino della Repubblica Italiana, 42 anni, giornalista precario, che ha studiato, ha lavorato, ha rispettato le leggi, che un po’ per passione civica e un po’ per mestiere ha letto anche più del dovuto e si è sempre informato molto come da bravo e fesso elettore ideale, insieme ad altri 7 milioni di nuovi poveri, dicasi 7 milioni - gente che anni fa non viveva nell’angoscia quotidiana, e ora sì - vorrei poter dire la mia dal momento che, si dice, saremmo in democrazia. Ma non posso. Non posso perché il mio pensiero e i miei bisogni non contano. Non arrivano a nessuno che possa fare una qualche differenza, alla faccia del web autostrada di uguaglianza (sì, come no: una camera compensatoria dell’eco, del rancore e dell’insoddisfazione, ecco cos’è). E se anche le mie esigenze e le mie idee trovassero ascolto, finirebbero sotto l’etichetta di populismo. Da che mondo è mondo il popolo è populista, poichè non detiene il privilegio di decidere le sorti altrui e subisce le decisioni di chi ha più potere e denaro. E quindi deve guardare anzitutto al proprio bene e determinarlo da sè, senza necessariamente sottostare a quell’opinione pubblica internazionale un tantinello mafiosa che vorrebbe sostituirsi a lui, oppure alle speculazioni dei mercati a cui genialmente abbiamo consegnato il nostro debito. Deve guadagnarsi di che vivere, l’uomo del popolo, conquistandosi la serenità minima, quella condizione sufficiente a guardare al futuro prossimo, letteralmente a domani, senza la sensazione di avere l’acqua alla gola. Oggi come ieri il popolo, cioè noi quaggiù che meniamo una vita normale, ovverosia normalmente ansiosa, non può incidere in alcun modo sul proprio destino.
Sì, vero, fra poco andremo alle elezioni. L’astensione sarà stratosferica. Sempre meno, fra di noi, si recheranno al seggio a timbrare il cartellino da sfruttati della democrazia. Comprensibile, anzi direi logico: quella crocetta che verghiamo sulla scheda è una delega in bianco svuotata di significato, rilasciata quando fa comodo a lorsignori che vivono nella loro bolla dorata e usano il nostro voto, la famosa “volontà popolare” (mi vien da ridere), per due cose che non fanno ridere per niente. Primo, sistemarsi, utilizzando la politica come auto-collocamento (e non mi riferisco solo al vitalizio parlamentare, ma alle ben più sostanziose prospettive di lucro in termini di agganci negli apparati pubblici e nelle aziende private, dove la spintarella e il dot ut des sono la regola, alla faccia della meritocrazia). Secondo, governare la giostra dello Stato quel tanto che basta (in gergo: “governance”, in inglese suona tutto più fico) affinchè chi ha rendite di posizione da difendere e da espandere, chi ha tanti soldi ma così tanti che io, uomo assolutamente medio, non riesco neanche a immaginarli, possa continuare a fare i propri interessi, i propri comodi, i propri affari. E si sa, gli interessi dei più forti prevalgono sempre sugli interessi dei più deboli, dei meno economicamente attrezzati, della massa di stipendiati con ritenuta alla fonte, pensionati sulla soglia della povertà, lavoratori autonomi che la partita Iva la vivono come un incubo, commercianti e piccoli imprenditori tartassati mentre gli evasori in grande stile, troppo potenti e intoccabili, neanche vengono tassati (le multinazionali con sede nei paradisi fiscali, for example). Per non parlare dei disoccupati o semi-occupati, delle vittime di contratti a tempo e a cottimo (contratti cri-mi-na-li e invece legalissimi: bisogna essere flessibili, bisogna farsi spremere, bisogna inginocchiarsi), finendo mestamente con gli indigenti in senso proprio, in senso totale. Nel senso della Caritas.
Personalmente, e come me uno sterminio di gente, vivo alla giornata o quasi. Annaspo nell’incertezza materiale, che è il sistema migliore per tenere l’asino al basto, ragliante ma impotente. Me ne può fottere qualcosa se il Pd va con i 5 Stelle? Me ne può fregare della rivalità interna al centrodestra, fra la Meloni e Salvini con il semi-imbalsamato Berlusconi in mezzo, un centrodestra che se pure, com’è probabile, vincerà questa tornata, troverà la via per mettersi il bastone fra le ruote da solo? Posso sopportare per un solo altro minuto la boria di un Renzi, l’insulsaggine di un Calenda, l’untuosità repellente di un Di Maio? Forza, tu che leggi e ti atteggi a cittadino benpensante, più accorto, più intelligente di me, più RESPONSABILE (dio quanto odio questa parola prostituita, in sé così importante per la vita vera, giacchè significa saper reagire, saper far fronte, saper vivere), forza, su, dimmi per quale arcano motivo dovrei ancora nutrire fiducia, avere una speranza. La speranza è da coglioni, la speranza è da servi, diceva Mario Monicelli. Perché ti porta ad accettare quel che c’è, quel che ti gabellano come l’offerta migliore possibile. Ma io non ho più tempo. Non ne ho più, devo lottare per sopravvivere. E fortuna che non ho figli, detto con amarezza. Perché se li avessi, se dovessi pensare a una famiglia che non ho, starei messo anche peggio. Dovrei guardarli e, senza dir loro nulla per non incupirli, sarei costretto a pensare che sono un fallito. Ma non è vero. Non sono un fallito: è questo modo di condurre e regolare le nostre vite che lascia sfiorire e frustrare il mio potenziale, la mia energia vitale. Questo è il grande delitto: far marcire, immiserire e impantanare la vitalità, i desideri e le aspirazioni di generazioni. La mia e quelle successive alla mia, che ormai ci han fatto il callo e non si ribellano più; o se lo fanno, lo fanno per modo di dire, scambiando il nemico di oggi, ossia i profittatori di Borsa che, fra i mille mila soprusi, decidono il costo della benzina sulla testa di governi e parlamenti, con i nemici di ieri o addirittura dell’altro ieri, i cui epigoni odierni non sono più che macchiette che ancora si masturbano su Mussolini: l’antifascismo, ragazzi, non è una pastasciutta, era sopportare il pestaggio, il confino, la galera e, per i partigiani, imbracciare un fucile con annesso rischio di crepare.
È falso che il nostro avvenire dipenda solo da ciascuno di noi. Dipende anche, e in misura determinante, dalle opportunità che dovrebbero essere garantite dal diritto per tutti, ma proprio tutti, a “una esistenza libera e dignitosa” (così la Costituzione, sempre in bocca a chi la rinnega). Invece di avere la mente fissa su questo, l’unica questione che davvero conti, il vicino di casa felicemente schiavo che un po’ tutti noi abbiamo sul pianerottolo si beve le etichette pubblicitarie e gli slogan da circo dell’Agenda Draghi, che non si capisce bene cosa sia (tra l’altro, un banchiere non può che avere un cuore da banchiere: calcolatore, pompato a euri stampati a profusione indebitandoci all’infinito). Si tracanna ancora e sempre la messinscena della destra, della sinistra e del centro, in realtà tutti belli atlantisti e conformisti (anche se la maggior parte di noi le armi all’Ucraina non vuole inviarle: saremo boccaloni, ma fino a un certo punto). E si fa infinocchiare dagli imbonitori da fiera in perpetuo riciclo (campagne elettorali: il non plus ultra dell’arte di mentire sapendo di mentire).
Ecco, io a questo mio vicino di casa, che magari è pure in buona fede, vorrei dire che è anche per colpa sua se io affondo nelle sabbie mobili. È lui che darà credito ancora una volta al teatro dei pupi. Dice: ma se non vai a votare, non farai altro che restringere la cosiddetta rappresentanza a geniacci come il tuo vicino, che ratificherà la sceneggiata al posto tuo. Scelta ancor più grave adesso, che il governo Draghi è caduto perché nessuno, né Draghi né gli altri, volevano assumersi la RESPONSABILITÁ di mettere la faccia e la firma alle mazzate che ci prenderemo giusto in autunno. E allora vai con il pit stop elettorale, per inscenare la commedia tragica di chi promette questo e quello anche se sa già che la rotta automatica è inserita, e chiunque governerà dovrà ancora una volta tosarci, dissanguarci e stringerci la corda al collo - con il via libera del gregge votante, sicuri del fatto che fra altri cinque anni il ricordo scolorirà sotto una caterva di nuove pantomime. Obiezione corretta. E infatti questo inutile sfogo è un messaggio in bottiglia nell’oceano, una lettera aperta a non-so-chi perché emerga dal caos una forza, vogliamo chiamarlo un Partito del Lavoro?, che per lo meno ci provi, a difendere anche me. A difendere noi, i senza santi né patroni, in questa guerra civile strisciante fra privilegiati e dimenticati. Un movimento organizzato, non una sigla fluida. Una comunità in carne e ossa, fuori dal palazzo, che ricostruisca un senso comune dalle macerie del finto buonsenso. In due mesi è impossibile, lo so. Ci vogliono anni di paziente lavoro. Perciò, a tutt’oggi non mi fido di nessuno. Nemmeno di certi tribuni affetti da narcisismo patologico che se li inviti a cena per udirne il verbo, al caffè ti presentano fattura. Né tanto meno di alternative dello zero virgola, prive di chances, che seppur animate da intenti nobili finiscono inevitabilmente per equivalere a taxi utili a trasportare tre o quattro personaggi sullo scranno, da cui recitare la parte dell’antisistema residuale.
Io, nessuno, non posso contare su nessuno. Ma in caso contrario, ci sarei, ci sono. Alla prima occasione utile, state pur sicuri, farò come Ulisse che facendosi Nessuno fregò il ciclope, conficcandogli una trave in quell’occhio che non vedeva se non pagliuzze mentre nel frattempo si cibava di carne umana - che poi sarebbe la nostra. Carne al macello, mentre lorsignori, gli ammanicati, i feudatari senza oneri, i protégé eletti e ri-eletti, i rieccoli che non tornano mai a lavorare, con quella loro sicumera nel difendere l’indifendibile, con la spocchia compunta di chi la sa lunga e s’impanca a mio rappresentante mentre io l’avrei mandato volentieri a esplorare la tundra, questa specie antropologicamente diversa da me, da me che tengo alla lealtà e al rispetto, questi professionisti del bipensiero (George Orwell, dove sei?) mi ricattano moralmente con il ritornello ossessivo della RESPONSABILITÁ. No, la vostra responsabilità è stata sempre irresponsabilità nei miei confronti. Lo è stata ora, tutti quanti come siete in combutta nell’aver indetto delle elezioni per pararvi il didietro, prima di un 2023 nero. Lo è stata in passato, quando non avete fatto che illudermi, che ammannirmi la balla di classe del diventare imprenditori di se stessi (ma se uno non ce la fa, vorreste pure togliergli il sussidio in quanto fannullone, così da sentirsi doppiamente colpevole), rintronandomi di futuro, sviluppo, competitività, lavoro creativo, nuovi patti sociali, libertà, libertà, tanta libertà, troppa libertà. Così troppa, che sono rimasto solo. L’unica certezza che ho è questa: degnerò di uno sguardo esclusivamente chi sarà credibile nel fissare due priorità, che sono 1) abolire lo sfruttamento lavorativo, spazzando via tutti i contratti e contrattini e prevedendone solo uno di inserimento a tempo realmente determinato, con salario minimo decente e rilanciando il reddito di cittadinanza; 2) sgravarci dal labirinto di imposte e balzelli diretti e indiretti, che contribuisce a renderci l’esistenza insostenibile, e contestualmente far pagare (che sarebbe già tanto), nonchè far pagare di più (come sarebbe giusto) chi ha patrimoni milionari, quella striscia del 2% di popolazione che guadagna anche mentre dorme, mentre io devo sudar sangue con le bollette. Ah, ultima cosa: Nato permettendo, anche basta guerre “democratiche”, “umanitarie”, “per la pace”, in cui ci spariamo sui piedi da soli. Grazie.