Quella di Giorgia Meloni è una destra di governo conservatrice, di nuova fattura rispetto alle antenate italiane ma, almeno nelle intenzioni, liberale in posizioni di politica economica e gestione dello Stato. Le contingenze in cui il governo si trova a operare e soprattutto il mutato quadro europeo e globale, che hanno messo la protezione e la sicurezza degli asset critici per la prosperità pubblica in cima alle agende dei Paesi occidentali, hanno però portato Meloni, per ora, a seguire una linea in cui la spinta, graduale, è stata all’ampliamento del perimetro di attenzione dello Stato sui dossier critici. Monte dei Paschi di Siena torna a una pur precaria normalità? Il governo ricapitalizza e rinnova il CdA senza parlare di privatizzazione. Tim è divisa tra scalate americane e controllo francese? Il governo prepara il dossier per il controllo pubblico dell’ex Telecom. Ita si trova in cerca di acquirenti? L’esecutivo Meloni tira sul prezzo al rialzo, non vuole svendere. La crisi energetica morde? Il governo “arma” il campione a controllo pubblico dei tubi, Snam, per progettare nuovi gasdotti in Italia, sulla direttrice adriatica. Il Pnrr imporrà un’accelerazione nella necessità di spesa degli enti pubblici? Meloni e i suoi, soprattutto il ministro della pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, preparano un’infornata di assunzioni nello Stato.
In nome del Pnrr, della necessità di colmare gli organici, di mettere a terra progetti e strategie il “piano Marshall” targato Meloni prevede 150 mila assunzioni all’anno nello Stato per tre anni. In contesti resi difficili da alta inflazione, precarietà e rischi recessivi torna il richiamo dell’occupazione pubblica come garanzia granitica per i lavoratori. Torna, soprattutto, una certezza: quella che vede la burocrazia chiamata a rispondere a crescenti sollecitazioni e a garantire competenze, tecniche, informatiche e operative, sempre più elevate e efficienti.
Mattia Feltri sull’Huffington Post e Stefano Cingolani sul Foglio a ottobre accusavano la Meloni di far parte del “partito unico statalista”, non capendo appieno le dinamiche di un Paese che ogni anno “paga” la manovra con i 30-35 miliardi di euro di dividendi garantiti dalle sue massime partecipate e in cui il sistema attuale è figlio dell’economia mista della Prima Repubblica, non di un sistema alla anglosassone dove, comunque, anche oggi lo Stato c’è…e si vede.
Negli Stati Uniti Joe Biden, per fare un esempio, se ne è fregato del mito della libera concorrenza quando ha promosso l’Inflation Reduction Act da 370 miliardi di dollari e il Chips Act da 52 miliardi per permettere al governo Usa di fare “ingegneria industriale”: promuoveranno spesa pubblica a pioggia per creare industrie di semiconduttori, auto elettriche, energia pulita, impiantistica e via dicendo. In Francia Emmanuel Macron spinge sul controllo pubblico degli asset vitali, l’anno scorso ha addirittura messo sul piatto 20 miliardi di euro per la sola nazionalizzazione di Edf, l’Enel d’Oltralpe. E che dire della Germania, dove gli operatori in difficoltà dell’oil and gas sono stati coperti dal governo di Berlino?
In una fase caotica come quella attuale il mantra del liberalismo a tutti i costi, della demolizione dello Stato, del dualismo pubblico-privato sarebbero a dir poco dannosi per la sicurezza e la prosperità pubblica. Non serve necessariamente più Stato, ma uno Stato più virtuoso e efficace. Uno Stato che, lo abbiamo ribadito, deve pensare in grande e affrontare di petto dossier come quello del ponte sullo Stretto.
Ritroviamo la destra sociale fattasi guardiana dello Stato, per ora, su questioni-bandiera che in forma diversa impattano sulla realtà quotidiana delle persone ma fanno discutere. Statalismo è fermare la libera concorrenza nel mercato alimentare in nome del limite a farina di grilli e carni sintetiche. Statalismo corporativo, ma sempre statalismo, è il freno alla messa a gara di stazioni balneari e porti in nome dell’italianità del controllo di questi asset. E anche la stessa idea di un intervento dello Stato per ridimensionare la partecipazione cinese al capitale di Pirelli, azienda privata con controllo da parte di capitali privati, mostra chiaramente una forma mentis precisa.
Provocatoriamente, possiamo dire che Meloni non sbaglia a seguire un trend dominante per l’Occidente. Per la destra che sognava la Thatcher del Belpaese ci sarà tempo di veder realizzati i propri sogni. Oggi con una guerra alle porte dell’Europa, la minaccia delle crisi finanziarie di ritorno, la coda dello tsunami energetico e una montante inquietudine sociale ricordiamo un detto che nella business community e dell’informazione economica circola spesso: non esistono atei nelle trincee, non esistono liberali nelle fasi di potenziali crisi economica. Lasciare tutto nelle mani anarchiche e umorali del mercato, in settori critici e decisivi per il Pil, sarebbe rischioso. Non è ideologia, è buon senso. L’augurio alla Meloni è di saperne fare buon uso.