I ritardi del governo Meloni che hanno per ora congelato l’erogazione di 19 miliardi di euro di fondi nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) hanno aperto il dilemma sulla possibilità dell’Italia di utilizzare effettivamente entro giugno 2026 tutte le risorse. E ridato fiato al dibattito a chi chiede correttivi in corsa al piano italiano per Next Generation Eu. Sui ritardi diverse scuole di pensiero si scontrano. C’è chi, come l’economista Mario Seminerio, accusa il governo di una scarsa attenzione alla concorrenza che non ha permesso le semplificazioni e lo sblocco, dalle licenze per i balneari alle gare per i porti, delle riforme necessarie a far partire gli aiuti. Il senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan ricorda invece che il partito-guida della coalizione di governo intende plasmare alcune modifiche a un Pnrr a cui ha votato contro, essendo ai tempi dentro il governo Draghi. Dall’esecutivo più voci hanno individuato nel leader che conquistò materialmente il Pnrr, l’ex premier Giuseppe Conte, il responsabile di errori e ritardi.
Voci, scaricabarili e critiche non sono certamente prive di fondi di verità, ma vanno lette in parallelo pensando a un dato fondamentale: siamo in grado di spingere fino in fondo sulla capacità di spesa del Pnrr? Questo è l’interrogativo che chi scrive ha sentito a più riprese ripetuto da esponenti della business community milanese nei giorni in cui, da più parti, alcune voci iniziavano a levarsi sulla prospettiva di rinunciare a parte dei fondi. È partito il capogruppo della Lega a Montecitorio, Riccardo Molinari, a cui hanno fatto eco due insospettabili studiosi, storicamente critici delle posizioni del Carroccio sull’Europa, come Tito Boeri e Roberto Perotti: “Il problema è che quei soldi non sappiamo come spenderli, e rischiamo di spenderli su progetti inutili o addirittura dannosi”, hanno scritto su Repubblica gli economisti bocconiani, silurando di fatto l’operato del collega di ateneo Francesco Giavazzi, nell’era Draghi regista della ristrutturazione del Pnrr dopo l’era Conte.
Capacità di spesa, fretta, priorità sbagliate, scarsa trasparenza e pochi controlli: ecco i motivi per cui parte dei fondi del Pnrr non dovrebbero, per Boeri e Perotti, essere presi. Casi come il bando sulla plantumazione arborea andato deserto a Milano o quello di Padova, dove un terzo dei progetti soltanto legati al Pnrr è partito, mostra che anche nel produttivo Nord si hanno difficoltà a mettere a terra molti piani. E che rispetto al 2020-2021 le priorità sono cambiate. Ad esempio il governo Meloni vuole spingere per aggiungere progetti, per cosi dire, più “geopolitici” come le reti energetiche per il trasporto del gas, come la decisiva Foligno-Sulmona, al duo Pnrr-RePowerEu, spostando altrove nei fondi di coesione progetti come la ferrovia Orte-Falconara.
Non ha torto il ministro Raffaele Fitto, con delega al Pnrr, nel chiedere una governance congiunta di Pnrr e fondi di coesione strutturale. In cui esistono sfide strutturali analogamente importanti: entro il 31 dicembre 2023, data di scadenza di attuazione dei fondi stanziati per il settenato 2014-2020, QuiFinanza ricorda che “dobbiamo spendere 29,8 miliardi (pari al 46 per cento della quota totale), di cui 10 sono di cofinanziamento nazionale. Se non riusciremo a centrare questo obiettivo, la quota di fondi Ue non utilizzati andrà persa. Insomma, è a rischio una buona parte dei 19,8 miliardi che Bruxelles ci ha messo a disposizione da almeno nove anni” e che hanno una valenza paragonabile a quelli del Pnrr ritardati dalle riforme.
Nel Pnrr la quota di fondi nazionali è in un certo senso più ampia rispetto che nei fondi di coesione dedicati alle regioni che necessitano di promozione allo sviluppo. Integrare le due politiche è fondamentale e, in quest’ottica, laddove il Pnrr ha coperto progetti già avviati, soprattutto al Sud, non è da escludere l’ipotesi che per evitare di bruciare piani infrastrutturali, sostegni alle imprese, politiche di transizione ecologica finanziati dai Fondi di Coesione si possa pensare di dirottare su di essi i progetti che col Pnrr occupano spazio rispetto alle nuove priorità dell’esecutivo.
Nel settennato 2021-2027 ci sarà tempo fino al 2029 per attuare i progetti, quindi la strategia si può attuare, potenzialmente, anche per progetti che l’esecutivo intende mettere da parte o ridimensionare nel Pnrr come il raddoppio della Roma-Pescara e le linee ferroviarie dello Ionio, che potrebbero invece ben ricadere nel campo dei fondi di coesione. Il Pnrr potrebbe essere colmato con priorità di breve periodo, come i gasdotti di cui si parlava, la rivoluzione del trasporto pubblico locale verso l’idrogeno e la mobilità elettrica e, a Dio piacendo, il ponte sullo Stretto. La componente decisiva sarà il valore aggiunto che tali progetti porteranno al Paese. Pnrr o fondi di coesione, è principalmente una questione di timing e opportunità. Ma non è una bestemmia dire che a dati fondi del Pnrr si può fare a meno di accedere, se il costo in termini di opportunità sarà troppo alto o si danneggerà la capacità di spesa. Anche i bocconiani in passato più europeisti e draghiani lo ammettono. Se la rinuncia sarà consapevole, e se non portare in campo dati progetti risparmierà anche riforme complesse, si potrebbe inoltre evitare di sconvolgere la burocrazia pubblica e le regole del sistema.