Per farsi un’idea chiara del nuovo Codice Appalti, la cui firma politica è del capitano leghista Matteo Salvini in veste di ministro delle infrastrutture, bisogna risalire al 18 aprile 2019. Quel giorno veniva varato il decreto Sblocca-cantieri: al governo c’era sempre lui, ma da titolare dell’Interno, alleato del Movimento 5 Stelle con Giuseppe Conte capo dell’esecutivo. Era il cosiddetto Conte 1, il governo gialloverde. Sulla poltrona su cui oggi siede Salvini c’era il grillino Danilo Toninelli. Fino a oggi era quello a fare testo, e avrebbe dovuto restare in vigore fino al 30 giugno di quest’anno, ispirato da una premura tipicamente politica quando si tratta di edilizia: tagliare sui tempi, anche a costo di avere poi brutte sorprese, in termini di rispetto dell’ambiente e della legalità. Lo Sblocca-cantieri introduceva delle deroghe alle gare per i pubblici appalti, poi ampliate durante la pandemia dal Conte 2, e che il nuovo Codice rende permanenti, cioè strutturali.
E qui, per la verità, a dare una mano a Salvini ci ha pensato il Consiglio di Stato, che ha scritto materialmente il testo di base. Dove sta allora il tema del contendere, la ragione per cui l’Autorità Anticorruzione (Anac) da una parte, e alcuni sindacati (Cgil e Uil) dall’altra, hanno polemizzato all’istante con il ministro, bramoso di lanciare al proprio elettorato il segnale del “liberi tutti” nei lavori pubblici? Non tanto nell’evitare i bandi di gara per quasi tutti i casi, un calcolo che più che il futuro fotografa in buona misura il presente, ma nell’aver spinto ancora di più sulla liberalizzazione ovunque si poteva, su tutti i piani che, come vedremo ora, non riguardano solo le gare, ma anche altri aspetti non meno sconcertanti.
Tanto per cominciare, nella stesura finale del nuovo Codice fra le righe il vincitore politico è l’Anci, ossia i Comuni italiani. È su richiesta loro che i piccoli Comuni potranno affidare in autonomia lavori fino a 500 mila euro. La motivazione è sempre quella: accelerare. Lo scontro con Giuseppe Busia dell’Anac si è acceso a partire dal fatto che già adesso la quasi totalità degli appalti avviene per affidamenti diretti o procedure negoziate, quindi senza gara. Quest’ultima è obbligatoria per legge sopra la soglia, fissata a livello europeo, di 5,3 milioni di euro. Ebbene, secondo l’ultima relazione dell’Anac, relativa al 2021, il 98% dei contratti di quell’anno è rimasto sotto quel limite. Il Codice Salvini, da questo punto di vista, non sposta la realtà se non per un effetto puramente propagandistico.
Le gare resteranno un’eccezione come lo sono già ora, solo che il governo ha modificato il testo del Consiglio di Stato stabilendo che le “stazioni appaltanti non qualificate”, cioè i piccoli Comuni, potranno gestirsi in proprio gli appalti, alzando di poco (da 139 mila a 150 mila) il paletto sotto il quale darci dentro con gli affidamenti diretti. Secondo Busia, in questo modo “i lavori e gli acquisti si fanno male, si spende molto di più del necessario e si buttano soldi pubblici”, perché “le pubbliche amministrazioni”, a maggior ragione se di dimensioni mignon, “soccombono nella contrattazione con i grandi gruppi privati”. In pratica, il pericolo di voto di scambio, di scambi di favori, di maneggi e di corruzione aumenta in proporzione alla difficoltà di individuare le zone grigie nei contesti locali, dove non di rado regna l'omertà perché i legami, gli affari e le parentele (siamo pur sempre in Italia) avviluppano la cosa pubblica. E dove un sindaco-Davide, in genere, non può che genuflettersi davanti al grosso costruttore, al Golia di turno.
Ma ci sono altri due punti criticabili, o quanto meno critici, collegati fra loro almeno nel concetto che li ispira: la semplificazione (altro modo per dire andar di corsa, di cui sopra…). Uno è la liberalizzazione dei subappalti, già avviata sotto il governo Draghi nel maggio 2021 con il decreto Semplificazioni bis, che abbatteva il limite del 50% di affidamento dei lavori ad altre aziende, appunto, in subappalto. Adesso, non ci sarà proprio più nessun limite. La conseguenza si vedrà sui lavoratori, perché le aziendine che si accaparrano i subappalti sono in genere il regno del caporalato e dei contratti pirata (di qui l’opposizione di Cgil e Uil, con la Cisl che al solito, volendo pensar bene, fa l'attendista). Il secondo, invece, riguarda quello che tecnicamente è definito appalto integrato: vietato nel vecchio Codice del 2016, reintrodotto alla chetichella in forma di deroga negli anni successivi, in sostanza consiste nell’appalto gestito da un solo soggetto, sia per la progettazione che per la realizzazione. E siccome non ci sarà più bisogno di un progetto definitivo, ma solo di uno studio di fattibilità per passare poi dritto e di filato al progetto esecutivo, è chiaro che favorite saranno le imprese più grandi, capaci di coprire l’intero ciclo di passaggi. E di condizionare di più le scelte del pubblico. Con buona pace della concorrenza.
L’appalto integrato è una possibilità che faceva già bella mostra di sé nelle procedure specificatamente previste per il Pnrr, il piano di fondi europei che l’Italia rischia di perdere per quasi metà, proroghe di Bruxelles permettendo. Anche per il Pnrr, infatti, l’imperativo categorico era, e ancor di più è oggi, ridurre le tempistiche, perché l’Europa detta scadenze precise e la macchina burocratica italiana, al contrario, è fondata sul ritardo e sul rinvio. Solo che sul Pnrr esiste, quanto meno sulla carta, un più stringente controllo pubblico poiché bisogna render conto all’Unione Europea, un livello in più, assente per gli appalti comuni. Siamo sotto osservazione dell’Europa, ma oltre a ciò il nostro occhio, come Paese, dovrebbe rimanere vigile sulle infiltrazioni della criminalità non solo corruttiva, ma anche organizzata, quelle mafie che vanno a braccetto coi colletti bianchi (imprenditori, politici, funzionari) trovando terreno fertilissimo anche nel settore dell’edilizia pubblica.
Tirando le somme, che cosa aveva detto il presidente dell’Anac di tanto inammissibile da suscitare l’ira della Lega, che ne ha chiesto le dimissioni? Che “è doveroso preoccuparsi di fare in fretta, ma non dimentichiamo che il vero obiettivo è fare bene”. Siamo al banale adagio secondo cui la fretta è cattiva consigliera, ma ormai anche una banalità può suonare sovversiva. Se poi ci aggiungiamo questa qua: “Semplificazione e rapidità sono valori importanti, ma non possono andare a discapito di principi altrettanto importanti come trasparenza, controllabilità e libera concorrenza, che nel nuovo Codice non hanno trovato tutta l’attenzione necessaria, specie in una fase del Paese in cui stanno affluendo ingenti risorse europee”, beh, allora siamo al delitto di lesa maestà salviniana. Busia, ma come ti permetti di fare il tuo lavoro di responsabile dell’Autorità contro la corruzione, poffarbacco?