Stropicciato. Voleva essere un avvocato stropicciato, l’avvocato Massimo Lovati. Altro che questi avvocati che sembravano rappresentanti di aspirapolvere, con le loro cravatte larghe e i loro completi sempre troppo stirati. Lui voleva essere fané, délabré, voleva essere un vocabolo “franscesé” che richiamasse alla mente Deleuze, Guattari, Castoriadis, quest’ultimo il creatore della frase “la fantasia al potere” secondo il giurista filosofo freudiano Pietro Barcellona. Oh sì, questi “franscesì” alla scuola di Freud! Fané, délabré, spettinaté. Voleva incarnare su di sé l’uomo maltrattato dalla Legge, stropicciato dalle sentenze, spettinato dai giudici. Sul vetro smerigliato del suo studio aveva fatto scrivere “Lovati & Inc.”, dove Inc. stava per Inconscio. Credeva all’inconscio collettivo e si buttava nell’agone mediatico dei processi sommari degli indici di ascolto come un eroe distopico e un po’ cyberpunk nell’arena di Rollerblade. Aveva sentito dire che l’intelligenza artificiale “sognava”: alcuni sostenevano che l’IA si inventasse le risposte quando non le trovava. Ma lui aveva letto, che dico letto, aveva sussunto La Critica dell’Intelligenza Cibernetica, aveva metabolizzato (o meglio “sintetizzato”) “Freud e il computer Quantico”, “L’inconscio e i processi in background”. Ai clienti diceva: “Ma vi sembra un caso che le operazioni di un computer si chiamino processi?”.

Così, ogni tanto, si bloccava. Restava seduto alla sua scrivania - il vecchio schedario in metallo, le tapparelle a listelli di metallo sottile, di quelle che puoi piegarle con il dito per spiare Suv neri, Furgoni adibiti a basi di spionaggio, Men in Black travestiti da travestiti (con le calze a rete strappate, il rossetto sbavato, la parrucca storta), che coprivano complotti vaticani, alte sfere politiche, rapporti sessuali pedofili – restava così, a guardare la polvere che danzava nelle strisce di luce e quando la segretaria Lucille, coi suoi capelli rosso fuoco, la sua minigonna seventies, le sue unghie laccate e la vocina da segretaria stupida (camuffava così il suo talento investigatorio) entrava nel suo studio in uno di questi momenti che chiamavano “Alt-Ctrl-Canc”, sapeva che doveva dire al cliente: “Si sta resettando”. Invece, l’avvocato Lovati, come soleva dire, stava “inconsciando”; l’inconscio collettivo mediatico gli parlava attraverso improvvise illuminazioni, deduzioni splendenti come neon accesi d’incanto nel buio della matrice. Il suo look alla Philip Marlowe (teneva una vecchia caffettiera su un fornelletto a gas, mai una macchinetta per il caffè espresso avrebbe macchiato lo stile del suo studio) unita alla passione per la psicanalisi e l’IA, lo avevano portato a definirsi Steampunk: “Avete presente Blade Runner? Ma con le macchine a vapore!”. L’ultimo caso al quale stava lavorando era finito su tutti i programmi d’approfondimento di cronaca nera, quei programmi che gli stupidi intellettuali chiamavano “trash” e ai quali imputavano (“imputavano”, il linguaggio è innervato dal “diritto” e nessuno se ne accorge) un qual certo voyeurismo (come se lo stesso voyeurismo non fosse il sintomo di qualcos’altro – e accarezzava i libri di Gottfried Benn dove si conservava la sua citazione preferita: “L’uomo è finito, restano soltanto i suoi sintomi”). Ebbene, per l’avvocato steampunk Lovati, quelle trasmissioni televisive erano l’inconscio collettivo al lavoro, era lo zeitgeist (lo Spirito del Tempo che parlava) e lui, ebbene sì, di questo inconscio collettivo era lo sciamano. Aveva visto sicari in azioni, feste lussuriose in ville private della Lomellina: “Avete presente Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick?”, chiedeva ai giornalisti: “Ma con le mattonelle e i servizi di Casalgrande Padana”. L’inconscio gli aveva parlato di pedofilia, metteva insieme Epstein e Emanuele Orlandi, il Lolita Express e il delitto dell’Olgiata: “Avete presente Qanon?”, chiedeva ai giornalisti, riferendosi ai complottari americani che avevano lanciato il PizzaGate: “Quello, ma con il Caprino di Ceriella”.

Il suo assistito era coinvolto in un tipico “cold case” (“Che vuol dire “formaggio caldo, avete presenta la ricotta?”, dichiarava ai giornalisti). Lo avevano coinvolto in un omicidio di anni e anni prima, ma il suo Ctrl-Alt-Canc gli aveva fatto vedere un sicario con gli stivaletti di pelle con la zip, il giubbotto di nappa marroncino, i pantaloni a zampa tutti belli stretti però larghi in fondo – forse portava una stampella per l’orchite – mandato a uccidere la vittima da un commercialista di Vercelli, famoso perché anni prima aveva partorito un alieno dal naso, dopo essersi trasformato in donna come il giudice Schreber di “Memoria di un malato di nervi”. Era lì che bisognava indagare, nei meandri delle fabbricheeeeeette, le stesse che avevano creato il Covid perché avevano eccedenze operaie e non ne potevano più di vertenze di lavoro. Era lì che bisognava accendere i riflettori, nelle villette in cemento armato e parquet tra canaloni e capannoni abbandonati. Lo avevano preso in giro a causa dei suoi “sogni”, mentre era la sua intelligenza cibernetica quantica che svolgeva i suoi processi in background. E adesso si stava per aprire l’incidente probatorio per la riapertura del caso: volevano riaprire il caso ipotizzando la compresenza di più assassini. Ma era una evidente forzatura. Lo aveva spiegato ai giornalisti: “Avete presente l’assalto a un portavalori?”. “Che minchia c’entra il portavalori?”, gli avevano chiesto i giornalisti”. Ignoranti. “Il camion blindato che trasporta lo sterco del demonio è la metafora oggettivizzata del nostro inconsio che ci fa vedere la verità e al contempo ci dice che la verità è brutta. Avete presente un prelato?”. “Un prete?”. “No, uno che è diventato calvo in anticipo! Avete presente un commercialista di Vercelli?”. Poi, d’improvviso, l’incubo. “Cold”. Questa parola gli rimbombava nell’inconscio. Apparteneva a un linguaggio misterico che doveva decifrare, come Robert Condom, quello di Dan Brown. Così una notte il suo inconscio era salito in macchina, come Salvatore Montalbano che guida per le trazzere sicule in una sorta di stato di trance aspettando un ulivo, un carrubo, una coltivazione di carciofi per capire, attraverso le intricate ramificazioni vegetali, dove stava la verità e quanto poteva essere contorta. La sua Fiat 128 sport Rally lo aveva condotto fino a Frosinone, nello stabilimento della Nestlè dove producevano uno Yogurt. All’improvviso, nella notte industriale, aveva visto una luce in cielo. L’autoradio della sua automobile (in onde medie) era impazzita, poi si era sentito sollevato in cielo. Lo risvegliò un agente di polizia che ticchettava con la sua torcia maglite sul finestrino. Ah no, non era una maglite, stava picchiettando con la paletta. Diede patente, libretto. Poi fu libero di andare. “Cold” voleva dire freddo. “Case”, caseario. L’astronave che lo aveva rapito aveva la forma a campana nazista, l’esperimento di levitazione gravitazionale del Terzo Reick. Ma era colorata! Lì dentro, nelle profondità del cielo stellato, c’erano mucche dissezionate col laser, sonde rettali. A cosa assomigliava quella astronave che conduceva esperimenti con il Dna degli abitanti della terra? Dalle profondità del suo inconscio quantico emersero gli anni ‘80 come dal Sottosopra di Stranger Things: e lui vide! Vide una mucca colorata e sentì una musichetta. Pensò a un prodotto caseario freddo e comprese. L’astronave, l’esperimento sulle mucche, il commercialista di Vercelli, tutto si incastrava come in un puzzle, e le tessere di quel puzzle si univano a forma di un barattolo di yogurt. Uno yougurt marca Fruttolo! Esperimenti segreti nazisti, alieni, Vaticano, Killer con la stampella, Stanley Kubrick (che aveva filmato il finto allunaggio), esperimenti sul Dna: tutto tornava. Il Dna del suo assistito sul Fruttolo! Ne era certo: l’incidente probatorio avrebbe portato al Fruttolo! Mentre rientrava nella Pianura Padana ne era certo: stava per cominciare un’altra avventura dell’avvocato steampunk Lovati. Peccato non avere un dottor Watson a trascrivere il tutto. (to be continued)
