Forse in pochi se ne sono accorti, ancora intontiti e distratti dal “gran pezzo di televisione” andato in scena nello studio Ovale della Casa Bianca fra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky. Ma oltre alla questione ucraina, l’Occidente e, soprattutto l’Unione europea, dovrebbero guardare a quanto sta accadendo in Romania dopo l’esclusione di Călin Georgescu dalla ripetizione delle elezioni presidenziali in programma a maggio. Elezioni che lo stesso Georgescu, politico filorusso molto popolare e leader del partito nazionalista Alleanza per l’unione dei rumeni, aveva stravinto raccogliendo il 36 per cento dei voti al primo turno. Georgescu aspettava di misurarsi al ballottaggio con la candidata Partito nazionale liberale di Elena Lasconi, che per impedire la salita al potere di una forza antieuropeista e molto vicina a Vladimir Putin aveva chiesto a tutti i partiti di unirsi in una sorta di progetto di unità nazionale “per difendere la democrazia e proteggere la Romania dalle ingerenze del Cremlino”. Uno sforzo che parrebbe non più necessario dopo la decisione dei giudici romeni di estromettere Georgescu dalla ripetizione del voto. In segno di protesta contro la decisione della Commissione elettorale romena, centinaia di persone si sono radunate nella capitale Bucarest domenica sera. Le proteste sono sfociate in violenti scontri con la polizia, che ha utilizzato gas lacrimogeni per disperdere la folla. Un segno, tuttavia, che il popolo che ha votato per Georgescu ancora lo sostiene, ritenendosi “derubato” dal proprio paese e indirettamente dall’Unione europea di cui la Romania fa parte.

L’annullamento della tornata dello scorso novembre era stato motivato citando presunte irregolarità nel finanziamento della campagna elettorale e di una serie di infiltrazioni della Russia, tesi sostenuta sulla base di prove raccolte dall’intelligence. Successivamente su Georgescu erano piombate accuse gravi, tra cui quelle di attentare all’ordine costituzionale del paese attraverso la creazione di un’organizzazione di stampo fascista, razzista e xenofobo. Inoltre, le indagini avevano coinvolto anche la piattaforma TikTok, che aveva fatto le fortune della campagna elettorale di Georgescu. I sospetti ritenevano che la piattaforma avesse “forzato l’algoritmo” per favorire la diffusione delle sue posizioni ultranazionaliste ed euroscettiche, contrarie alla Nato e favorevoli a un avvicinamento a Mosca, facendolo diventare virale in molti casi.

Insomma che Georgescu non fosse uno stinco di santo era acclarato. Inoltre, era diventato il volto di chi invoca la fine di un establishment ritenuto corrotto e noncurante degli interessi nazionali pur essendo un prodotto di quello stesso sistema prima come membro della Securitate la polizia segreta della Romania comunista, poi come membro di governo nella tra il 1991 e il 1998. Ma ciò che sta alimentando la rabbia e la frustrazione che abbiamo visto in piazza la scorsa notte riguarda il cortocircuito insito nelle democrazie liberali i maldestri tentativi con cui si cerca di attenuarne le conseguenze, mettendo una pezza che è peggio de buco. Ciò che ha fatto infuriare i seguaci di Georgescu è che alla decisione dei giudici di ritirare la sua candidatura non sia seguita alcuna spiegazione, pur essendoci molti dossier aperti in campo. Una scelta che ha alimentato un’idea innestata da mesi e nutrita dalla propaganda dello stesso partito di Georgescu, e cioè quella di essere stati “derubati” da un sistema corrotto guidato dall’esterno, forse direttamente da Bruxelles. Sì perché ad oggi delle elezioni svoltesi in uno dei paesi membri dell’Unione che per definizione difende i valori democratici sono state annullate, senza che vi sia una motivazione ufficialmente formulata sulla base di prove. E a pagarne le conseguenze potrebbe essere soprattutto l’immagine dell’Unione europea, che sulla vicenda non ha ancora aperto bocca. Per quale motivo su questioni simili manca un fronte comune a Bruxelles, che possa per esempio accettare la decisione dell’ufficio elettorale romeno pretendendo però assoluta trasparenza e tempestività sulle motivazioni? Senza gestire in maniera credibile in funzionamento dei propri meccanismi di garanzia, che sono l’essenza stessa della democrazia, la salute dell’Unione europea rischia di essere attaccata dai suoi stessi anticorpi, lasciando circolare i virus del sospetto in cui la disinformazione prolifera. E, ancora più grave, tradendo la fiducia dei suoi cittadini. Un esercizio pericoloso di cui la Storia potrebbe presto chiedere conto.

