Un giorno dopo i bombardamenti israeliani a cui è seguita la pronta risposta dell’Iran la scorsa settimana, un Boeing 747 cargo è decollato dalla Cina. Ne è seguito un secondo, alzatosi da una città costiera, poi un terzo, partito da Shanghai: tre giorni, tre aerei, che percorrono una rotta ben precisa. Dal nord della Cina verso ovest, attraversando Kazakhstan, Uzbekistan e Turkmenistan, per poi scomparire dai radar mentre si avvicinano allo spazio aereo iraniano. Ufficialmente la destinazione era il Lussemburgo, ma nessuno degli aerei è mai entrato nei cieli europei, secondo le rilevazioni di Flight Radar. La tipologia degli aerei – cargo 747 – non è casuale: mezzi utilizzati, come osservano diversi esperti, “comunemente per il trasporto di equipaggiamenti militari”. Intervistato dal quotidiano britannicoTelegraph Andrea Ghiselli, docente all’Università di Exeter e specializzato nelle relazioni Cina-Medio Oriente, ha sottolineato: “Questi carichi non possono che generare grande interesse per l’aspettativa che la Cina possa fare qualcosa per aiutare l’Iran”. Una frase che apre a uno scenario di portata potenzialmente globale, ma non sorprendente se si tiene conto dei rapporti già in essere tra Pechino e Teheran: “Il crollo del regime attuale sarebbe un colpo pesantissimo, genererebbe instabilità che minaccerebbe gli interessi economici e energetici cinesi”, ha continuato Ghiselli. Il regime degli ayatollah fornisca a quello di Pechino fino a due milioni di barili di petrolio al giorno, un nodo strategico per la sicurezza energetica cinese. Tuttavia, il rischio politico è elevato: un sostegno militare palese potrebbe far saltare i fragili equilibri nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti, soprattutto in un momento in cui Washington valuta un possibile intervento diretto nella faglia di conflitto apertasi tra Tel Aviv e l’eterno avversario regionale.

La cooperazione militare sino-iraniana è un fenomeno radicato da anni, e documentato in numerosi rapporti internazionali. Il Stockholm International Peace Research Institute (Ssipri) nel suo rapporto “Transfers of major conventional weapons: China-Iran trends 2000–2020” evidenzia come “la Cina abbia fornito un flusso costante di componenti per missili balistici, droni da ricognizione e sistemi radar, spesso attraverso triangolazioni commerciali volte a eludere le sanzioni internazionali”. Ma la relazione tra i due paesi non è fatta di sola warfare militare: come ha sottolineato lo studio “Chinese Military Influence in the Middle East”, pubblicato dal Center for Strategic and International Studies (Csis) nel 2021, l’Iran è anche “uno dei principali beneficiari delle tecnologie dual use cinesi, specialmente per quanto riguarda sistemi di sorveglianza, controllo delle comunicazioni e infrastrutture anti-satellite”. La dimensione operativa di tutto ciò si riflette in esercitazioni navali congiunte nel Golfo Persico e programmi di addestramento incrociato delle forze speciali: segno di un legame ben più che simbolico. E non si può poi dimenticare il caso mai davvero risolto del porto Shahid Rajaei, dove nel 2021 esplosioni sospette sono state collegate da alcune fonti locali e da un report del Middlebury Institute of International Studies alla movimentazione di razzi spediti da Shanghai. Il documento indica che “vi sono elementi che suggeriscono la presenza di armamenti sensibili giunti via mare, con possibili implicazioni per la sicurezza regionale”. Sebbene le autorità iraniane abbiano parlato di sabotaggio, l’episodio ha acceso ulteriori allarmi sulla natura della cooperazione militare.

C’è poi un’altra importante considerazione contenuta nel rapporto “Iran’s Defence Strategy and China’s Role” pubblicato nel 2022 dall’International Institute for Strategic Studies (Iiss), secondo il quale: “Pechino non può permettersi un collasso del regime iraniano, data la dipendenza energetica e le implicazioni per la stabilità regionale e per il successo della Belt and Road Initiative”. Ma al contempo “non può esporsi apertamente, pena il rischio di sanzioni severe e un deterioramento delle relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti”. Stando a queste affermazioni sembra che l’ambiguità di Pechino non sia dunque il risultato di un modo “strisciante” di agire sul piano internazionale, bensì una vera e propria linea d’azione da adottare per perseguire fini strategici.
Sebbene, come già ha affermato Andrea Gilli, Docente di Studi Strategici alla St Andrews University, in un’intervista appena rilasciata a Mow, l’ombra di una globalizzazione del conflitto sembrerebbe non esserci – “Se guardiamo la politica estera cinese degli ultimi trent’anni, capiamo che l’obiettivo è stato sempre quello di risolvere le crisi, non di farle scoppiare” – è lecito chiedersi se il conflitto tra Israele e Iran non possa quantomeno assumere le sfumature di un confronto a bassa intensità da le due principali potenze globali. La posizione di Pechino, lo abbiamo detto, è pragmatica: tende sempre a evitare l’escalation per paura di mettere a rischio la propria crescita e le ambizioni globali. Da questa prospettiva, la partita militare rimane principalmente regionale, ma con un’ombra pesante che incombe sul possibile coinvolgimento globale, un gioco di pressioni e ambiguità che può cambiare rapidamente volto. Quante volte, dopotutto, abbiamo assistito allo sbriciolarsi di equilibri internazionali che sembravano solidi negli ultimi anni? Ecco perché la vicenda dei voli cargo misteriosi è un elemento di dubbio che deve tenere rizzate le antenne sul fitto reticolo di ambizioni geopolitiche, interessi energetici, strategie militari e alleanze strategiche di cui proviamo a venire a capo ogni giorno.