Prima di tutto è opportuno fare una doppia premessa. La numero uno: ci auguriamo – e ci mancherebbe altro - che Cecilia Sala, la giornalista italiana arrestata in Iran con la generica accusa di “comportamenti illegali”, venga al più presto rilasciata, e che, sana e salva, possa tornare al più presto a casa. La numero due: nessuno intende in alcun modo insegnare a una collega esperta e brillante come si lavora all'interno di un “Paese ostile”. Detto questo – più che necessario visto che non è proprio il periodo storico più adatto per avere un'opinione, per così dire, contro corrente – arriviamo al cuore della discussione. Sala si trovava a Teheran, con un regolare visto giornalistico, per raccogliere materiale da utilizzare nel suo podcast su Chora Media. Quale materiale? Stava – da quanto si legge sulle agenzie e dai suoi social – intervistando varie donne - compresa tale Zeinab Musavi, non una donna qualunque ma una specie di “Litizzetto iraniana” - per documentare la vita quotidiana del gentil sesso all'ombra dei monti Elburz. In precedenza aveva scritto vari articoli sul quotidiano Il Foglio nel quale, oltre a raccontare la situazione del Paese, ne analizzava la crisi socio-politica, lanciando velate accuse contro il governo (non proprio democratico e liberale) degli ayatollah. Andare in un altro Stato, scriverne più o meno bene, criticarne il governo, parlare con la sua società civile e pure con qualche dissidente: per noi (“noi” sta per Occidente) tutto ciò rientra nel modus operandi del perfetto giornalista. Peccato che l'Iran rientri nel fantomatico “asse del male” (ancora una volta creato da “noi”) insieme a Corea del Nord e Iraq (oggi anche Russia e, forse, Cina), e che da quelle parti nessuno abbia voglia di assistere all'operato di media stranieri. Tanto più nel bel mezzo di una gravissima crisi internazionale.
Detto altrimenti, e in termini quanto più espliciti possibili, se per l'occidentale medio il “giornalismo non è un reato”, per chi vive al di fuori del fantomatico Eden - formato da Europa e Stati Uniti (la famosa “Europa come giardino da difendere” da contrapporre alla giungla Russia, cit. Josep Borrell) – il giornalismo è molto altro: è spesso uno strumento da utilizzare per rafforzare il governo in carica, per rispondere alla “propaganda” straniera, per amplificare la propria, per raccontare il mondo filtrandolo attraverso altri valori, altri interessi, altre prospettive (non universali né tanto meno incentrate sull'Occidente). I giornalisti stranieri che operano a Teheran – ma più in generale in quei Paesi definiti diplomaticamente ostili - non sono automaticamente considerati portatori della verità assoluta (come invece molti di noi vorrebbero che fosse). Al contrario, sono visti con sospetto, inseriti in apposite liste, tenuti sotto controllo, presumibilmente schedati e considerati potenziali agenti al servizio di chissà quale intelligence nemica. Se, poi, quei cronisti – oltre a dover scontare il “peccato capitale” di provenire dall'Occidente – hanno una carriera caratterizzata da un giornalismo che parla, tocca e maneggia tematiche sensibili, come i diritti umani e i dissidenti, ecco che scatta il secondo segnale d'allarme. Amplificato, infine, da un'altra Spada di Damocle: lo scrivere articoli apertamente critici contro i governi (non democratici, non liberali, non amici) in carica nei Paesi visitati. Se per noi (ancora il “noi contro loro” che aggrava tensioni e scontri) tutto questo rientra nell'attività di un giornalista, per altri player globali – piaccia o non piaccia – non è così.
Poi potremmo aprire un altro discorso e dire: che senso ha andare in uno dei Paesi dell'asse del male a intervistare dissidenti? È ovvio che quelle persone descriveranno l'Iran - ma, nel caso, anche la Russia, la Corea del Nord e via dicendo - come l'inferno in terra, e che da certi articoli non emergeranno aspetti degni di nota in grado di fare vera luce - se non proiettata attraverso la dissidenza - su quegli stessi Stati. Ma, al di là di questo, il più grande misunderstanding degli intellettuali occidentali consiste nel pensare che tutto il pianeta ragioni come loro. Il loro errore, meglio ancora, consiste nel ritenere il giornalismo che sfocia nell'attivismo alla stregua di una crociata salvifica per liberare il mondo dal Male (inteso in termini assoluti con la “m” maiuscola). Certo, qui nessuno condivide la visione degli “altri”, tutti noi siamo nati e cresciuti in un contesto dove fare giornalismo non è effettivamente un reato (forse...), e troviamo incomprensibile assistere alla detenzione di cronisti e reporter. E però commettiamo spesso un errore: diamo troppe cose per scontate. Poi, ogni qualvolta accade una triste vicenda, impacchettiamo l'episodio con frasi retoriche impossibili da contrastare, tipo che “il giornalismo è una missione”. A quel punto la palla passa alla diplomazia che, dal nulla, si ritrova a dover risolvere situazioni pazzesche mettendo a repentaglio alleanze, rapporti diplomatici e spesso anche interessi nazionali. Per il bene nostro e di tutti i coraggiosi giornalisti. Fatte salve le premesse iniziali, fatto salvo il diritto di ogni cittadino di andare a raccontare ciò che vuole in giro per il mondo (e di tornare a casa sano e salvo), bisogna considerare due aspetti. Il primo: possono, talvolta, emergere dinamiche geopolitiche, assolutamente non controllabili, che rischiano di mettere a repentaglio la vita di reporter e cronisti (anche nel caso in cui, come nel caso di Sala, i governi concedano tutti i permessi necessari per operare in loco). Il secondo: bisogna prendere atto di quanto già spiegato nel seguente articolo, e cioè che nei cosiddetti Paesi ostili vigono leggi, regole e interessi a noi distanti e spesso sconosciuti. Non si possono dunque raccontare a priori? Si possono, anzi, si devono (o dovrebbero) raccontare boots on ground, ma usando, forse, un approccio quanto più asettico possibile.