Giusto ieri, in redazione, è arrivata la testimonianza anonima – tuttavia verosimile – di una figura che da anni lavora nel settore pubblicitario. Una testimonianza in linea con quanto sollevato prima da Massimo Guastini, pubblicitario autore di varie campagne di successo nonché ex presidente dell’Art Directors Club Italiano (Adci), quindi corroborato dai dettagliati post di Giulia Segalla, una delle ragazze molestate nell’ambiente lavorativo (il fatto risale al 2011). Un polverone, per ora mediatico, che nell’intenzione di chi oggi prova a denunciare si configura come un tentativo, quasi disperato, di uscire da una condizione di costante apnea. Un’apnea, parrebbe, frutto di un sistema chiuso ben descritto dal testimone sopra citato: “(nelle agenzie pubblicitarie) da una parte ci sono le figure manageriali, spronate a produrre sempre più profitto, dall'altra le figure operative (creative o tecniche) perennemente sfruttate. Questo perché tutto si regge sull'essere sottostaffati, altrimenti il business oggi non è sostenibile. Questo fa sì che si creino ambienti di lavoro molto stressanti, nei quali per contro si formano relazioni fortissime, l'agenzia diventa la tua famiglia e all'interno si instaurano dinamiche che non tengono praticamente mai conto di alcun tipo di "formalità", educazione, regole di buon costume, rispetto per la persona umana, forse si pensa che, data la situazione di perenne emergenza, tutto sia permesso”. Eccolo qui il “sistema”, o comunque qualcosa di fastidiosamente “sistematico”. Tempo di fare un po’ d’ordine. Ripartendo, per forza, da Massimo Guastini.
Lei ha accusato apertamente una persona precisa, prendendosene ogni responsabilità. Non teme ritorsioni legali?
Mettiamola così: dopo 12 anni che provo con le vie soft, tentando di sensibilizzare l’Art Directors Club Italiano sul fatto che non sia giusto che un molestatore seriale, Pasquale Diaferia, abbia l’opportunità di vedere/valutare il portfolio (raccolta di lavori creativi, nda) di giovani professioniste che stanno provando a costruirsi una carriera dignitosa, ho deciso di dire tutto. Ci vuole una certa levatura morale, mi permetta, per avere a che fare con giovani donne che meritano di vedere il lato migliore della nostra professione, non quello più squalificante. Negli ultimi 7 anni, in particolare, ho messo più volte in guardia il Club, ma vedendo procedere le cose troppo lentamente – come se non interessassero davvero – ho detto basta e sono uscito allo scoperto su Facebook (i primi post sul tema, tra l’altro, non sono così recenti: risalgono al 18 maggio scorso, ma tutto è esploso con l’intervista che ho rilasciato a Monica Rossi), affermando che ritenevo inopportuno, ad esempio, che Diaferia presenziasse a determinati convegni. Consideri che sono stato due volte presidente del Club – sei anni consecutivi di mandato –, quindi so di cosa sto parlando.
Nonostante lei sia stato presidente in passato, solo oggi però…
Capisco dove intende arrivare: nonostante sia stato presidente, Diaferia è stato espulso dall’ADCI solo qualche giorno fa. Dall’attuale presidente, Stefania Siani (sul sito del Club potete leggere che “il consiglio direttivo dell’ADCI all’unanimità in data mercoledì 7 giugno ha deliberato l’esclusione del socio Pasquale Diaferia da ADCI Art Directors Club Italiano”). Scusi se l’ho interrotta, ma mi segua, tra poco le sarà tutto chiaro. In realtà io Diaferia l’ho ostacolato eccome in passato.
Confidiamo nella sua chiarezza. Diciamo allora che finora il suo accusato, su cui al momento non ci sono pendenze concrete di altro tipo al di là delle sue parole, non ha reagito a questa pioggia di accuse. Non le pare strano?
Conoscendolo no, non lo trovo strano. Personalmente, a parti invertite, gli avrei già fatto trovare i carabinieri sotto casa.
Come si spiegherebbe allora questa calma?
Per quel poco che ha lasciato trapelare, lui non si è dichiarato “innocente”, ha solo detto che non ci sono prove a suo carico. Lui ha sempre contato sul fatto che le sue vittime non lo avrebbero mai denunciato. Una ci era anche andata, a dire il vero, dalle Forze dell’Ordine, ma le venne sconsigliato di affondare il colpo. Tre donne, però, sui miei canali social adesso sono uscite allo scoperto: “Lo ha fatto anche a me”.
Lei ha avuto esperienze di lavoro dirette con Diaferia (nei cui confronti, ribadiamo, al momento non c’è alcun addebito)?
Mi sta chiedendo se sto facendo tutto questo caos in virtù di qualche vecchia ruggine? Ebbene, no. Perché io e Diaferia abbiamo sempre giocato in due campionati diversi. Io per 30 anni sono stato imprenditore, ho avuto agenzie mie, assumevo i creativi; lui, in quei 30 anni, è stato un dipendente (non mio, chiaramente). Il punto d’incontro fra me e lui c’è quando Diaferia molesta una mia stagista, Giulia Segalla, che poi mi racconta tutto. Un mese dopo quegli avvenimenti – ricordiamolo ancora, siamo nel 2011, nda – divento presidente dell’ADCI. Nel momento in cui Giulia decide di non denunciare io non posso fare molto di concreto, ma un presidente può comunque trovare il modo, l’autorità, per allontanare un socio immorale. Nel mio caso, ho giocato sulla permalosità e il narcisismo di Diaferia. Pur non commettendo alcuna violazione formale, non lo accolsi bene, tanto che se ne andò sbattendo la porta. Si dimise trasformando il suo gesto in un’operazione di self-promotion. Ci definì dei cialtroni, dei corrotti, ma ero ben contento del risultato ottenuto.
Quindi quello dello scorso 7 giugno non è stato l’unico allontanamento di Diaferia dall’ADCI?
No, affatto. Ma appena ho terminato i due mandati, Diaferia, col successivo presidente, rientrò in gioco. Chiamato a spiegare al nuovo presidente perché lo avessi allontanato, esposi ogni mia ragione, ma da quel momento abbiamo dovuto attendere ben 7 anni prima che, in un clima finalmente mutato, Diaferia venisse di nuovo allontanato, stavolta da Siani.
Ciò che lei dichiara si allinea molto bene con quanto raccontato da Giulia Segalla. Giulia dice di non aver potuto contare sull’appoggio di nessuno, tranne che il suo. Lei, a sua volta, benché presidente di un ente di categoria, ci racconta, in fondo, la sua solitudine.
Certo. Anch’io sono stato lasciato solo. Non faccio parte del Club da 4 anni, non sono più uno di loro e infatti nessuno di loro ha messo mezzo like ai miei recenti post. La verità è che senza l’intervista a Monica Rossi (si tratta di uno pseudonimo, nda), non sarebbe accaduto nulla. E badate, Diaferia non è l’unico. Ce ne sono tanti come lui.
E qui arriviamo a We Are Social.
Sì, quella è una vicenda diversa, ma l’ambiente è sempre lo stesso, il nostro.
Lei crede che chi in questo momento sta denunciando in forma, per ora, anonima (Giulia ci ha messo nome e cognome, ma altre ragazze hanno preferito restare nell’ombra) abbiano patito molestie dirette o “semplicemente” lavorato/vissuto in un ambiente marcio?
So che ci sono indagini in corso. E come ben sa su Instagram questa Tania (canale Instagram: taniume) sta raccogliendo varie storie. Tutte queste ragazze presto faranno mosse concrete. E poi me lo lasci dire: guardi che la “chat degli 80” (è la chat che tra il 2016 e il 2017 riuniva tutti i colleghi maschi dell’agenzia creativa We Are Social, nda) non è una questione più leggera rispetto alle molestie subite da Giulia.
Cosa intende per “mosse concrete”?
Ciò che stanno facendo le ragazze non credo sia finalizzato a una denuncia da consegnare alle istituzioni, anche perché il reato di molestie sessuali di cui ora stiamo parlando è da tempo caduto in prescrizione. Credo che l’obiettivo sia cercare di fare emergere dal buio gli autori delle molestie. Ribadisco: per anni siamo stati lasciati soli. L’incalzante interesse dei media è stato l’unico elemento che ci ha permesso di iniziare a muovere qualcosa dentro un ambiente sempre preoccupato di subire eventuali danni di immagine e poco ansioso di individuare chi si macchia di atti a dir poco odiosi. Ai miei tempi si chiamava ipocrisia, oggi vanno più di moda i termini inglesi. Quindi spero che le ragazze, al plurale, trovino la forza di fare ciò che una ragazza, al singolare, ha avuto paura di fare: esporsi.
Le ragioni della reticenza le spiega bene Giulia in un suo post su Facebook. Ciò che forse va ancora messo a fuoco, in uno scenario così complesso, è quante siano le ragazze che hanno subito molestie simili a quelle subite da Giulia (che si è ritrovata bloccata in auto, per ore, a fianco del suo aguzzino) e quante invece siano finite nel mirino di una chat sessista e volgare.
Ma guardi che la chat non è meglio, eh?! Nel caso di Giulia parliamo di una molestia perpetrata da un singolo, Diaferia, un vecchio lumacone che molestava con la scusa del lavoro, portandosi le ragazze in luoghi appartati per poi provarci. Quando parliamo della chat, ci riferiamo a un’ottantina di giovani professionisti, tutti maschi, che usavano quel luogo virtuale per vivisezionare le colleghe, giudicarle solo per le tette o i fondoschiena. Annullandole come esseri umani. Quella chat ha preso vita nell’evoluta e progressista Milano, nel cuore del terziario avanzato. È la prova che si può parlare di “sistema”.
We Are Social, alla luce delle tante notizie uscite sulla chat incriminata, si è autosospesa da UNA, Aziende della Comunicazione Unite, avviando un’indagine affidata a un ente terzo. Cosa ne pensa?
Ne prendo atto. Quello che posso dire è che Gabriele Cucinella (We Are Social) nei giorni scorsi mi chiamò dicendomi che avrebbe risposto pubblicamente a un mio post. Ci conosciamo, abbiamo lavorato assieme in passato, e allora mi sono sentito di dargli un consiglio: non basta dire che voi da anni – proprio a partire dagli anni delle famose chat – seguite politiche etiche e inclusive, dovreste anche dire che tutti i capi che sono stati protagonisti di quella chat nel frattempo sono andati via. Dovreste invitare a tornare da voi quelle dipendenti che vi hanno lasciato quando l’ambiente era tossico. Trasformereste delle vittime (quelle dipendenti che non hanno avuto il coraggio di denunciare) in ambasciatrici, dando un messaggio di grande sensibilità e rilevanza sociale. Lui mi dice “ok, ci penso”. Passano due ore ed esce invece con un comunicato freddo, generico, che gli procura una serie di attacchi ampiamente prevedibili. Il bubbone di We Are Social esplode davvero in quel momento.
C’è un post o una testimonianza, fra tutto ciò che è stato pubblicato finora, che l’ha particolarmente colpita?
Credo che poche cose siano più convincenti della voce di Giulia nel podcast uscito l’altro giorno su Radio Popolare. Parla di eventi vecchi di 12 anni, vissuti quando era ancora una ragazza e non una donna, ma la sua voce è ancora rotta dall’emozione.