Hanno scatenato un pandemonio di tweets e threads le affermazioni circa la maternità vissuta come massima aspirazione per le donne di oggi pronunciate dalla senatrice Mennuni, qualche giorno fa, alla trasmissione di La7 Coffee Break. La senatrice, che di figli ne ha tre, avuti tra il conseguimento della laurea in Giurisprudenza e l’abilitazione alla professione di avvocato, ha invece messo in luce – male - un tema di cui nel nostro Paese si parla poco: quello della maternità come diritto. Male perché è ovviamente anacronistico e offensivo appellarsi alla maternità come ‘missione’ o ‘massima aspirazione’ di una donna: ma nessuno può negare che negli ultimi venticinque anni non ci sia stata una sola forza politica, uno scrittore o una scrittrice, un intellettuale o un intellettualessa che abbia affrontato la questione del calo demografico in Italia dall’unico punto di vista che conta, quello economico. Qualche settimana fa mi è stato richiesto di assistere a un incontro, all’interno di una facoltà universitaria, di approfondimento sulle pratiche di gestione aziendale e pari opportunità, che oggi non si chiamano più così ma cadono sotto l’acronimo anglosassone DE&I – ovvero Diversity, Equity & Inclusion – ennesima orribile locuzione anglosassone con cui si fa riferimento all’insieme di politiche organizzative delle aziende volte a garantire gli stessi diritti e le medesime opportunità a tutti, indipendentemente da genere, età, etnia e via dicendo. Nelle due ore di amabili chiacchiere si è parlato di “diversity management”, di “resilienza dei lavoratori”, di “sfondare finalmente il tetto di cristallo”, e di tantissimi altri concetti interessanti. Peccato che nessuno abbia parlato di soldi. Per intenderci: non c’è nulla di male a sostenere valori legittimi, ma quello che appare sempre più evidente è che queste meravigliose ‘battaglie civili’, se non sono sostenute da politiche economiche e sociali attive appaiono solo come meravigliose dichiarazioni di intenti, che hanno lo stesso impatto del Nulla della “La Storia Infinita”. Mettetevelo nella zucca: il cambiamento ‘culturale’ avviene solo e unicamente se cambiano le condizioni economiche alla base: ma mentre tutti parlano delle prime, delle seconde non parla nessuno.
Eh sì: quali sono esattamente le idee del campo progressista per applicare questa benedetta inclusività da un punto di vista pratico, concreto e dunque economico? Restiamo alla maternità invocata dalla senatrice Mennuni: nell’Europa a 27 Stati membri, sono 11 gli Stati che prevedono l’estensione del congedo parentale ai genitori oltre i 2 anni, con un’indennità che in Svezia e Norvegia, per citarne due, si mantiene all’80% dello stipendio. L’Italia, al contrario, concede alle madri fino a massimo 6 mesi di congedo parentale al 30% della retribuzione (di cui il primo salito all’80% grazie alla Legge di Bilancio 2024 del Governo Meloni); a questi si aggiungono altri 3 mesi (per un totale di 9 mesi) se a usufruirne è anche il padre. Un divario non da poco anche se si guarda ai giorni retribuiti per malattia dei figli: in Italia se ne prevedono 5 l’anno (5 in un anno!) tra i 3 e i 12 anni di età del figlio, mentre in Svezia si arriva a 120 giorni l’anno fino ai 12 anni di età. Il Vab, dal 1974, consente a madri e padri di assentarsi dal lavoro per accudire il proprio figlio in difficoltà: secondo la Confederation of Swedish Enterprise, il Vab è uno dei fattori alla base dell’alto tasso di occupazione femminile svedese, il più elevato nell’Unione Europea, perché rende più semplice per le madri rimanere nel mondo del lavoro mentre si prendono cura dei figli piccoli. C’è qualcuno, nel campo degli inclusivi perennemente indignati o dei sovranisti della natalità, che sta pensando a una politica di sostegno diverso? Se si, quale? E con quali risorse economiche? Nessuno lo sa. Come nessuno sa che cosa fare con la questione degli asili nido, arrivata ormai alla deriva, con tagli per oltre 100 milioni di euro dovuti alla revisione del Pnrr. Come nessuno sa, cambiando argomento, che cosa fare dei migranti nei centri di accoglienza, la cui unica prospettiva di vita è l’elemosina. O dei rider costretti a condizioni di lavoro inumane. E via discorrendo. Va bene, abbiamo tanti afro-americani nominati agli Oscar, la Sirenetta e Lupin neri, e le scrittrici femministe dominano le classifiche di vendita: ma ai milioni e milioni di poveri cristi e povere criste che hanno un lavoro normale e uno stipendio da fame, e a causa di quello stipendio da fame sono esclusi sistematicamente da ogni sogno proprio del nostro immaginario, chi ci pensa? Tanti anni fa la base dell’azione politica del campo progressista si basava, con diverse gradazioni di intensità, sul pensiero di un tizio per il quale, in una società, l’unica cosa che contava davvero era l’economia, ovvero il denaro, e tutto il resto derivava da quello. Quel tizio si chiamava Karl Marx. La sinistra “woke” di oggi, invece, del denaro se ne frega, e dopo aver sostituito la brutale concretezza di Marx con le supercazzole aglio, olio e peperoncino di Chiara Valerio, tra un acronimo e un’armocromista assomiglia sempre di più ad un’associazione culturale per ricchi, capace di mettere insieme tante belle parole, ma senza la capacità di risolvere nemmeno un problema. “Con questi dirigenti perderemo per vent’anni” diceva Nanni Moretti nel 2002. Con questi valori, invece, tra poco non esisteremo di più.