Davide Lacerenza si è fatto da solo, si è fatto da poco. Ci sarebbe da ridere, ma non è così. Lui è Milano vista da uno specchio incrostato di bamba, che preferisce ammirarsi solo quando la luce è perfetta. Perché Lacerenza e la sua corte di cocaina e escort non sono un incidente di percorso, ma il percorso stesso che nessuno vuole ammettere: più facile additarlo, demonizzarlo, screditarlo. La sua Gintoneria ha adempiuto alla parabola del successo di cui si vanta la città e che viene inculcato, specie ai tanti di noi che sono venuti qui pensando di farcela. Perché solo se vivi a Milano cogli un risvolto nel caso Lacerenza che ci tocca nel profondo. E ti tocca ammettere che lui almeno ci ha messo la faccia e il naso, fiutando cosa chiedessero per il loro divertimento trasgressivo quei tanti insospettabili che ci tengono alla reputazione e che piombavano al suo covo dopo la mezzanotte, l’ora di punta in questa Gotham strafatta e decaduta. Dracula in astinenza di ego, vi(p)gliacchi che per lavoro magari biascicano di moralità e integrità dagli scranni della politica e del giornalismo di marca, ipocriti che nascondono la mano e che hanno bisogno di portaborse-coca-e-donne. Salvate dunque il "cavallo" Lacerenza dai denti acuminati del gossip, che dopo giorni diventa linciaggio. Notizie sempre più disumanizzanti per la nostra percezione stizzita, condite da dettagli torbidi sui nick delle escort o aneddoti su quel manager arrapato che leccava lo sfintere di quella chiamata apposta “Puzzola”.

Non ho mai provato empatia per Lacerenza, anzi l’ho disprezzato dal basso del mio moralismo, fino a quando non mi sono immerso nelle sue parole e comparsate, che galleggiano tra le righe dei nitriti clowneschi per fare show da quel burattinaio di casi umani che è Giuseppe Cruciani, complice del fintamente stizzito David Parenzo. Proprio in quella trasmissione, Lacerenza allude al suo passato – senza vantarsi, come va di moda invece tra tanti imprenditori stimati e riveriti: emergono quelle sue albe formative al mercato ortofrutticolo, anche ad agosto, mentre gli altri andavano in vacanza; e intanto lui scaricava casse, sognando una cazzo di Ferrari, quel simbolo fiammante e giudicato, parcheggiato di fronte alla Gintoneria, che lui amava detergere con lo champagne. Una storia di ambizione che lui ha portato avanti dal basso, prendendo esempio dal sistema Milano, raccogliendo ciò che questa città semina. E ha esagerato, probabilmente per gli effetti psicotropi dell’onnipotenza inalata, a tal punto che quelli attorno a lui tremavano: qualcuno della polizia lo avrebbe anche avvisato, preoccupato, perché poi escono fuori nomi e cognomi e le carriere si inceppano. Anche solo per questo Davide Lacerenza va rispettato: perché non ha mai difeso la sua immagine. Ha portato all’ennesima potenza l’idea dell’impunità che in questi decenni le amicizie importanti gli hanno dato. La sua parte più infantile l’ha tradito, non solo quel bonifico da centinaia di migliaia di euro di un qualche rampollo accorso per il pacchetto champagne, coca e umori vaginali. Davide Lacerenza avrà commesso i reati per cui ora verrà giudicato, ma non è questo il punto. In lui c’è l’unità di misura di quella parte malcelata in noi, nei bassifondi della nostra anima, al cospetto di una città che raccoglie brandelli di ambizione. Mentre lo studiavo, vedevo i soldi scorrere e pensavo ai miei compromessi, a quei pochi euro che così tanto mi condizionano. E poi ti poni le domande: in un’altra dinamica della mia vita, tra i banchi dell’ortomercato, io come mi sarei comportato? E poi, quanti gradi di separazione incombono tra me e la sua clientela che a pelle disprezzo? E se fosse solo che io non potrei permettermi una notte in Gintoneria? Il pregiudizio non dorme mai. Basta anche solo la palese e turpe ignoranza di una persona a far sì che la distanza aumenti, di pari passo con la disumanizzazione.

"Davidone", così lo chiamavano gli amici. Chissà quanti ora si stanno dissociando dalla sua generosità troppo estroversa e troppo sfacciata. Ve lo ricordate il caso di Alberto Genovese? Stessi addendi: ragazze e cocaina, ma nella cornice perfettina della Terrazza Sentimento a ridosso del Duomo. Perché lui era cool, un colletto della polo bianco. Alberto Genovese, startupper di successo che a molti conveniva frequentare. Lui regalava la bianca e intanto sviluppava pubbliche relazioni tra quelli che contano, eccitati tra reel di marca con le guglie sullo sfondo. Su Facebook, centinaia di amicizie in comune che diminuivano nella paura di essere associati a news che giorno dopo giorno dipingevano un orco più che sospettabile, ma taciuto perché travestito da successo profumato, e uno così è conveniente averlo amico. Nulla a che vedere con Lacerenza, che almeno non ha fatto violenza. Ha semplicemente letto il mercato dal punto di vista più paradossale, unendo l’offerta alla domanda più vietata. Non solo, dunque, una storia di droga e prostituzione, ma una storia di verità all’ombra del potere e di cosa l’uomo possa diventare inseguendo ciò che viene rivenduto come ambizione. Si vive una volta sola, e alcuni, come Davide Lacerenza, hanno l’avidità animale di prendersi tutto ciò che noi, nel nostro pavido moralismo, ci permettiamo a tratti di desiderare. E mentre lo specchio di Milano ci riflette, continueremo a chiederci: siamo così diversi da lui o solo più bravi a nasconderci e rinunciare?
