Sono qui per parlare di donne. Non per quella gratuita e forzata solidarietà femminile che, per uno dei troppi concetti del politically correct, andrebbe messa in atto sempre, con chiunque appartenga al tuo stesso sesso (anche qualora si trattasse di un'emerita idiota), ma per una solidarietà più profonda e meno scontata, verso delle donne dimenticate a cui non pensa quasi mai nessuno. Le detenute che stanno scontando una pena. Si parla tanto (troppo) di violenza sulle donne, oramai parlarne è diventata una moda. Chi ne parla probabilmente neanche sa che esiste un problema a riguardo molto grande, ovvero la lentezza delle leggi che portano a fermare o allontanare chi sta commettendo queste violenze tramite ordini restrittivi e tempestivi interventi. Si richiedono prove, testimoni, ferite o lesioni prima di fermare i colpevoli. Tanto è vero che programmi televisivi come Storie criminali hanno portato alla luce storie di donne purtroppo già morte, rendendo giustizia quando oramai era troppo tardi. Il rispetto che tutti nutrono per le donne, la grande volontà di proteggerle, il dare numeri a cui possono rivolgersi in caso di violenze subite, fisiche o psicologiche, è un rispetto nobile e degno di ammirazione, ma andrebbe rivolto, se onesto, anche alle donne che, in seguito a degli sbagli, hanno perso la libertà e stanno scontando una pena. C'è da chiarire che la pena, di per sé, è già "punizione", e la punizione non andrebbe aggravata da mancanze, gravi disattenzioni e condizioni di vita penose che non portano l’essere umano, seppur "colpevole", a un’adeguata reintegrazione nella società. Le detenute sono donne, e se amate così tanto le donne e le volete aiutare, i vostri intenti nobili e puri andrebbero rivolti anche a loro, che non sono meno donne di tutte le donne. Invece sono dimenticate, ignorate, abbandonate a un destino unicamente punitivo, come se la loro esistenza non avesse più alcun valore né possibilità di redenzione. Un’ex detenuta, che è stata per anni a Rebibbia, dopo aver letto il mio primo articolo sul carcere, mi ha cercata, contattata e trovata. Dopo essersi sfogata con me su quelle che erano le condizioni precarie e le gravi mancanze del carcere, le ho chiesto, mantenendo l’anonimato, di mettere su carta un quadro dettagliato di tutte le gravi ingiustizie che, in questi anni di reclusione, aveva subito e che ad oggi continuano a subire le donne non ancora libere. Questa testimonianza è diventata inevitabilmente un articolo. Perché è ora che si sappia fuori quello che succede dentro. Perché la correttezza non può essere messa in atto solo dove e quando fa comodo a voi.

Il senso di giustizia non può più essere un intrattenimento ruffiano nei programmi della Tv, che non porta assolutamente a nulla se non a un’autocelebrazione della vostra grande bontà. Essere corretti è una scelta precisa, senza fraintendimenti o mezzi termini. Significa lottare contro le ingiustizie senza interruzioni pubblicitarie, significa proteggere i più deboli e smetterla di fare a gara a chi è più bravo e più legale, anche questa sarebbe una gara dove vincerebbe solo chi dite voi, e dove più volte ha vinto solo chi era protetto dai poteri forti, con magiche assoluzioni o evitate condanne che dovrebbero indignare chiunque possieda una coscienza o un senso di giustizia. Invece ci si indigna solo nei confronti dei più deboli, che sono sempre colpevoli. Le situazioni, invece, andrebbero viste in un ambito globale, con un’apertura mentale volta all’accettazione del "diverso" e di chi ha sbagliato ma potrebbe non sbagliare più, analizzando ogni singolo caso per passato, presente, possibile futuro, nel rispetto della storia personale di ognuno di noi, qualunque essa sia. E ahimè, non può essere sempre e solo una storia impeccabile, senza errori, piena di sole e bei principi messi in atto, perché che esista solo il bene è un’utopia impensabile ed irrealizzabile persino per i grandi esempi della società a cui avete commesso il grave errore di dare il potere, sempre pronti a educare là dove non esiste nulla da combattere, a punire e a rubare fingendo che tutto questo assolva noi da una vita di stenti, quando continua ad assolvere sempre e solo loro, anche di fronte ad atti illegali gravissimi. Ecco che “la legge è uguale per tutti” diventa “la legge è uguale per chi dico io”, e la giustizia diventa sempre più una barzelletta di quelle che non fanno ridere. Volete cambiare il mondo? Che ne dite di cominciare da voi stessi? Che ne dite di venire trasformati per primi? Ma come si ottiene il cambiamento? Attraverso l’osservazione. Attraverso la comprensione. Attraverso la verità. Senza interferenze o giudizi da parte vostra. Perché quel che si giudica non si può comprendere. Per giudicare un essere umano bisogna almeno conoscere il segreto del suo pensiero, delle sue sventure, delle sue emozioni. Se il presente cerca di giudicare, il passato perderà il futuro. E il futuro è un diritto di tutti, così come lo è la comprensione, il pentimento e la trasformazione del dolore in qualcosa di costruttivo, che potrebbe essere utile a una società civile e pronta a perdonare. Il perdono è un’arma potente che libera l’anima e rimuove la paura. Il perdono è "memoria selettiva", una decisione consapevole di concentrarsi sull’amore e lasciare andare il resto. Non scrivetemi su Instagram con la vostra solita delicatezza nei miei confronti: “E se ammazzassero tuo figlio?” Intanto, non tutti quelli che sono in carcere hanno ucciso, e comunque anche un omicida merita una possibilità di riabilitazione. Inoltre, credo che porre fine a una vita sia già di per sé come un suicidio, in quanto la tua vita non sarà mai più la stessa, e la morte farà talmente parte di te da essere, di per sé, una condanna ancora più insopportabile di quella che hai inflitto. Poco importa, a quel punto, che io ti perdoni o no. Sappiate comunque che ho perdonato cose terribili nella mia vita. L’ho fatto piangendo e ancora oggi piango ripensandoci, ma la mia capacità di assolvere e perdonare è immensamente grande e fa sì che, non importa in quale situazione difficile mi trovi, io viva sempre in pace con Dio. Mia madre, prima di morire, mi disse una cosa che mi ha segnata per sempre. Ero consapevole che fosse molto malata e sarebbe morta di lì a poco, e le dissi: “Ma io come farò senza di te?” Mi rispose: “C’è un Dio per tutti, trova il tuo”. E vi invito a trovare il vostro, che può essere chiunque ed ovunque: potete trovarlo nei sogni, nella speranza, attraverso qualsiasi cammino, scelta religiosa, desolazione o gioia. Potete trovarlo dappertutto. I segni della sua esistenza sono ovunque.

Ma non lo troverete mai condannando gli altri o vivendo in modo disonesto. Non lo troverete nelle bugie, nei compromessi, nell’abbassare la testa. Non lo troverete smettendo di lottare, di credere, e concentrandovi sugli errori degli altri e su tutto il marcio della vita. Sarete, anzi, complici. Colpevoli di non vedere e non cercare il bene. Colpevoli di aver smesso di credere che “il male esiste se lo creiamo noi”. Che il potere del sogno produce miracoli inspiegabili, e che per sognare bisogna trovare pace e bontà dentro di noi, ma soprattutto verità: quella verità che vi terrorizza e che non è altro che liberazione, onore nei confronti dell’onestà che tanto esaltate e bramate. La mia amica ex detenuta non ha fatto altro che raccontarmi la verità... Ha raccontato la sua pena scontata, ma una parte di lei è ancora lì e ci resterà per sempre. Scrivermi una lista dettagliata di tutte le cose che non vanno nel reparto femminile di Rebibbia, per aiutare le donne che sono ancora dentro, è stata l’unica vera liberazione che ha provato una volta fuori. L’ho pregata di darmi fiducia, perché quella lista l’avrei pubblicata così com’era, come una testimonianza sacra (e lo è, sfido qualunque giornalista ad averne una). Le ho promesso che queste informazioni sarebbero state patrimonio di tutti. Questo è quello che ha scritto. Lo condivido con voi: verità nuda e cruda di una donna traumatizzata, e di certo non migliorata, che ha scontato la sua pena a Roma (e non in un paese sottosviluppato del terzo mondo). Non c’è nessun interesse nel denunciare queste realtà se non quello che le cose cambino, una volta per tutte, nel rispetto delle donne a cui teniamo tanto e che vogliamo proteggere con spot, appelli e bei discorsi. Vi prego di collaborare tutti come potete per porre fine a queste ingiustizie e a questo terribile dislivello che esiste tra uomini e donne nelle prigioni di questo Paese.
Ecco la testimonianza scritta da lei: “La condizione detentiva femminile è nettamente peggiore di quella maschile. Il carcere è pensato per i maschi: non si è riflettuto né si continua a riflettere sul ‘mondo in rosa’, chiamiamolo così. Le detenute sono un numero irrisorio rispetto agli uomini, sono quindi contenute in un’area isolata e mai attrezzata alle loro necessità. Dovendo mantenere una separazione netta dai settori maschili, dove sono ubicati tutti i servizi principali del carcere — ovvero uffici degli educatori, ufficio del comando, aule scolastiche, biblioteche, infermerie, uffici amministrativi, palestre — sono tagliate fuori da tutta una serie di attività e possibilità concesse ai detenuti maschi senza problemi. Le detenute sono poche, perciò hanno meno corsi, attività lavorative ed è richiesta la presenza del personale carcerario per controllarle in ogni loro movimento, quando normalmente nei grandi carceri i detenuti hanno molta più libertà di movimento per partecipare alle attività e dialogare con le figure istituzionali che devono seguire il loro percorso rieducativo. Ne consegue che le donne accedono con più ritardi a benefici e misure alternative, avendo meno colloqui con educatori e criminologi. Infatti, la percentuale delle detenute che lavorano è nettamente inferiore a quella maschile, considerando che esiste anche una differenziazione per sesso rispetto ai lavori offerti. Le celle, irregolari per la normativa europea per spazi e carenze strutturali, sono pensate per gli uomini, prevedendo spesso solo bagni ‘alla turca’, senza bidet né docce e solo con acqua fredda. Altre hanno letto, water e cucina tutte nello stesso vano senza divisori, o con divisori inutili, contravvenendo a ogni norma igienica o di privacy. Non sono presenti specchi: quindi, dopo anni di detenzione, le persone fanno fatica a riconoscersi. Negli istituti, l’approvvigionamento dei beni (pagati a proprie spese dai detenuti e supervisionati dall’amministrazione nella scelta dei prodotti) non prevede attenzione alle esigenze femminili. Con scelte pregiudizievoli nei confronti delle donne in reclusione, molti prodotti consentiti al maschile vengono negati alle donne senza motivo, e altri tipicamente femminili non sono proprio previsti. Se è prevista l’istruzione di secondo grado, al femminile si hanno pochissime classi, a volte nessuna. Tutto è in base ai posti che rimangono, una volta esaurite le esigenze del maschile, considerando l’assurdità che la presenza delle studentesse è ammessa solo se sono già diplomate. Ovviamente, al maschile questi problemi non si pongono, avendo tutte le scuole ubicate nell’edificio dove si trovano i reparti. L’alfabetizzazione è prevista ovunque; per le donne, le scuole medie inferiori sono ridotte a una terza media che deve andare bene per tutte. In cella si ha diritto a massimo quattro libri senza copertina rigida (e se si sta preparando un esame universitario?). A Rebibbia la palestra è completa di tutti gli attrezzi, ma non può essere utilizzata perché il personale che dovrebbe supervisionarne l’uso non c’è, mentre al maschile le palestre non richiedono sorveglianza e sono spazi fruibili senza problemi. A Roma, per concludere, agli uomini sono concesse due telefonate a settimana, alle donne una. Anche qui, senza una ragione plausibile. Una donna reclusa in carcere sperimenta pienamente la condizione di pregiudizio e sudditanza che le donne hanno subito per secoli nelle società patriarcali. Più che fuori, in galera ti rendi conto di quanto una donna venga considerata incapace di prendersi cura di sé e sapersi gestire, tanto da essere controllata a vista in ogni suo movimento e frustrata nelle sue esigenze femminili, che debbono venire a patti con un ipocrita e moralista senso del decoro che considera ‘oscene’ delle semplici canotte, vieta le tinte ai capelli di alcuni colori, il trucco, gli specchi, la bigiotteria — come se queste cose aumentassero la colpa. Mentre l’assenza assoluta di medici come ginecologi o senologi è considerata normale, come se col reato si fosse automaticamente perso il diritto alla salute. Le donne, spesso, a parità di reato, hanno pene più lunghe, perché il crimine è considerato più ‘normale’ negli uomini, e una che lo commette è perciò doppiamente deviata e merita una punizione esemplare anche nell’espiazione. I reparti femminili, inoltre, sono senza divisioni tra tipologie di detenute e reato, per cui, nelle celle sovraffollate, si trova di tutto: dalle psichiatriche senza alcuno strumento di contenzione farmacologica, alle malate di tumore molto anziane che necessitano di una badante, alle donne in sedia a rotelle, alle giovanissime. In questi reparti, perciò, si è sempre in stato di allerta, e alle carcerate vengono attribuiti compiti che non dovrebbero avere: sostegno alle detenute, approvvigionamento di beni di prima necessità. Questi disagi portano tensioni fortissime, e capita sempre più spesso di essere oggetto di violente aggressioni, che aggravano una condizione di isolamento e disperazione. Oltre a perdere fiducia nella vita stessa, queste condizioni portano a gravi forme di depressione e pensieri suicidi, e si esce non riabilitate, ma ammalate psicologicamente e spesso anche fisicamente, pur essendo entrate sane. Le umiliazioni sono continue e non ci sono possibilità di sfogo o di miglioramento. Solo voglia di farla finita il prima possibile, pur di non vivere un giorno in più in queste condizioni”.

E qui subentro di nuovo io, ringraziando per questa testimonianza e citando alcuni tratti della Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati. Carta che dovrebbe essere affissa sui muri di tutte le prigioni, ma che è stata vista solo sul muro della prigione di Bollate, carcere esemplare ed unico in Italia per i suoi progetti concreti di riabilitazione. La Carta è legge, e come tale ha valore legale. “Gli istituti penitenziari debbono essere dotati di locali per le esigenze di vita individuale e di locali per lo svolgimento delle attività in comune, locali che debbono essere di ampiezza sufficiente, aerati e riscaldati e muniti di servizi igienici riservati. Sono salvaguardati il diritto alla salute e l'erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Negli istituti penitenziari si svolgono corsi scolastici a livello di scuola d'obbligo e scuola secondaria superiore. Ai detenuti che si sono distinti per particolare impegno e profitto nei corsi scolastici e di addestramento professionale sono concesse ricompense. È altresì consentita la possibilità di svolgere la preparazione da privatista per il conseguimento del diploma di scuola secondaria superiore e della laurea universitaria. Nell’istituto vengono organizzate attività culturali, sportive e ricreative che fanno parte del trattamento rieducativo. Per partecipare ai corsi o alle attività è sufficiente una richiesta scritta. Il lavoro è uno degli elementi fondamentali del trattamento carcerario. I detenuti possono partecipare, a loro richiesta, ad attività lavorative.” Queste regole, così chiare, sono in contrasto con le dichiarazioni dell’ex detenuta in questione, la quale mi racconta che, in tutto il periodo — piuttosto lungo — della sua detenzione, tanto per dirne una, alle donne non è mai stata aperta la palestra, che pur esisteva, e restava chiusa senza un valido motivo. Per non parlare delle condizioni delle celle, del vago diritto all’istruzione e al lavoro, discriminato se si tratta di femminile. Smettetela quindi di ripetere a raffica, come un vinile graffiato, “chi ha sbagliato deve pagare”. In questo articolo non si discute questo. Siamo tutti d’accordo, ma chi ha sbagliato non deve perdere il diritto all’istruzione, alle condizioni igieniche, al lavoro e alla dignità. Nell’interesse di tutti, chi ha scontato una pena non può essere rimesso in libertà più arrabbiato di prima, senza nessuna fiducia in sé stesso e nella vita. Vi siete mai chiesti perché il crimine è recidivo e una percentuale altissima di detenuti torna in galera (molti per un’intera vita)? La responsabilità è anche delle istituzioni, che dovrebbero educare e non solo punire. Nel caso delle donne, le condizioni carcerarie non educano nessuno, e per essere un esempio di condotta apprezzabile, per imporre dei doveri, bisognerebbe mettere in atto anche quel minimo di diritti che sembrano mancare in molte prigioni italiane. Quindi, se volete davvero combattere la violenza sulle donne, anche queste gravi mancanze sono una forma di violenza. E anche le detenute sono donne, né più né meno di qualunque donna libera ed onesta. Si punisce il reato, non la dignità della persona. Qualcuno ha detto che ci vuole meno sforzo mentale a condannare che a pensare. Concluderei con una frase di Dostoevskij: “Non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo”. E se proprio non avete voglia di capire, rispettate almeno le leggi che regolano la detenzione. Solo così potrete erigervi a esempio. Nessun esempio ha mai portato un essere umano a pensieri suicidi, seppur colpevole. Il concetto di colpa vale per chi ha sbagliato, ma anche per chi condanna. Per tutti i responsabili del rispetto delle regole, che debbono essere messe in atto sia dai “buoni” che dai “cattivi” — o questa assoluzione sarà chi governa e ha il potere di combattere le ingiustizie a doverla chiedere. Magari non in questa vita, ma sicuramente nella prossima. L’ignoranza è una colpa. Non ignorare o dimenticare queste donne sarebbe la vittoria di una società tollerante, rispettabile, ma soprattutto giusta.
