La tragedia di Giulia lascia un senso di vuoto e di sconfitta dolorosissimo, anche a causa di quella sensazione di “ineluttabilità” del male che dal primo momento ha caratterizzato questa vicenda. Una sensazione che si era acuita già da venerdì mattina, quando (quasi) tutti i giornali italiani avevano riportato la delirante intervista al padre dell’assassino, secondo il quale il figlio poteva “averla portata in campeggio”. Chiariamo subito un punto: quest’uomo non ha nessuna giustificazione per le assurdità dette nell’occasione. I contorni della vicenda erano chiari da giorni a tutti; dunque, quelle parole non possono essere considerate come il frutto di un momento di debolezza ma come rivelatorie di una forma mentale sedimentata, dove risultava credibile pensare che Giulia, una ragazza che studiava una materia impegnativa come ingegneria biomedica e che, al contrario dell’assassino, era arrivata al traguardo, si fosse assentata il giorno della laurea per andare in un campeggio in montagna a novembre. Non era il solo passaggio inquietante di quell’intervista: senza mai essere contraddetto da un giornalista che fosse uno, l’uomo descriveva il figlio come “un ragazzo d’oro”, “una persona a modo”, “fondamentalmente un buono”, che amava Giulia “infinitamente” e che “non le avrebbe mai fatto del male”. Geloso? Forse un po’ “possessivo” come del resto “tutti i ragazzi a quell’età” (ma chi l’ha detto che tutti i ragazzi sono possessivi?). Peccato che in questa lunga tirata, a cui il signor Turetta si era sentito in dovere di abbandonarsi “per sgombrare il campo dall’idea che Filippo sia un mostro violento” non compariva mai un’informazione fondamentale: che il figlio, da Giulia, era stato lasciato. Questo non trascurabile dettaglio non rallentava minimamente il torrenziale eloquio del genitore, che anzi raccontava episodi della vita dei due ragazzi (“scherzavo con Giulia del fatto che Filippo era tirchio, le dicevo: ma almeno la pizza te l’ha offerta stavolta?”) come si fosse trattato di due fidanzati, come se ancora fossero insieme. In altre parole: della volontà di Giulia, benché chiaramente espressa e nota a qualunque suo conoscente, al padre di Filippo non fotteva nulla, ed è proprio qui il cuore fondamentale del problema. Nella sua intervista tesa a difendere il figlio si percepisce l’incapacità patologica dell’uomo ad accettare le delusioni, a rendersi conto, cioè, che Filippo non era il ragazzo modello da lui idealizzato ma il suo contrario, una persona problematica, ossessiva e inconcludente, tanto da essere stato incapace di laurearsi a differenza dell’ex fidanzata. “Sapevamo che era indietro con gli esami ma non era un problema, ognuno ha i suoi tempi”. No, signor padre di assassino: i tempi giusti erano quelli di Giulia, e i tempi sbagliati erano quelli di suo figlio, e la sua incapacità di riconoscerlo è identica a quella dell’assassino di accettare il fatto che Giulia non volesse più avere a che fare con lui.
Non serve a molto, dunque, fare manifestazioni per “dire no alla violenza sulle donne”. Quello, a parole, lo dicono tutti: il tema fondamentale, che riguarda una generazione e un’epoca intera, è come insegnare, in una società completamente secolarizzata, che la volontà individuale ha molti, moltissimi limiti, e che questi limiti sono estremamente dolorosi, e non c’è nulla che si possa fare al riguardo. Ora, da qui al 25 novembre, usciranno articoli, programmi TV, manifestazioni a cui parteciperanno giornaliste e scrittrici con il libro in uscita: come al solito, insomma, si cavalcherà l’onda lunga della tragedia per monetizzare il monetizzabile, se non in termini economici, almeno di visibilità. Ma il tema di fondo resterà immutato: l’aver escluso dal nostro vissuto l’idea del dolore e del fallimento come parte integrante – e a volte dominante – della vita, l’esserci convinti di avere tutti il diritto a realizzare “i nostri sogni” e a prendere parte a chissà quale banchetto di felicità esistenziale non farà che generare altri padri mostruosi, altri figli mostruosi. Esemplare, a questo proposito, l’intervista di oggi del Corriere al presidente vicario del Tribunale di Milano, Fabio Roia, che si stupisce di come episodi del genere capitino ancora nonostante “tutto quel che di positivo arriva dalla comunicazione dei social”. È esattamente il contrario: è proprio a causa dei modelli imposti anche e soprattutto dai social che episodi del genere accadono con questa frequenza, e probabilmente accadranno sempre di più in futuro. Ma si tratta di un discorso complesso: e i discorsi complessi, si sa, non portano views.
P.s. Un’ultima considerazione la meritano i giornali che hanno riportato l’intervista al padre dell’assassino in maniera completamente acritica. Open, per esempio, titolava “L’ipotesi del padre di lui”: “forse l’ha portata in un campeggio” come se si trattasse di un’ipotesi plausibile e non di un delirio offensivo per la vittima e per i suoi parenti (tant’è che la sorella di Giulia, alla notizia del ritrovamento del corpo, ha proprio citato un passaggio di quell’intervista in una stories, “l’ha uccisa il vostro bravo ragazzo”). Il giornalismo italiano, insomma, si conferma quella cosa per cui se fuori c’è il sole e un tizio dice "fuori piove”, sui giornali viene riportato acriticamente che piove, senza nessuna domanda ulteriore, senza l’esercizio di alcun pensiero critico.