Sembrava che il carbone fosse diventato il nemico pubblico numero uno dei governi più civili (che per alcuni fa rima con progressisti), tanto che persino i dati ufficiali davano l’impressione che il suo utilizzo fosse ormai agli sgoccioli. Nel 2021, la produzione di carbon fossile dell'Unione europea era stata di 57 milioni di tonnellate, il 79 % in meno rispetto ai 277 milioni di tonnellate del 1990, mentre dal 2018 al 2021, la stessa Ue aveva ridotto di un quarto il consumo sia di carbon fossile che di lignite. Nel 2021, negli Stati Uniti erano stati consumati circa 546 milioni di tonnellate corte di carbone. In base al contenuto energetico, si trattava di una quantità pari a circa il 10,8% del consumo energetico totale del Paese, l'importo più basso dal 1964 e la seconda quota percentuale più bassa, dopo il 2020 e almeno dal 1949, del consumo energetico annuo totale degli Usa. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha tuttavia interrotto questa parziale narrazione mediatica, causando l’aumento dei prezzi del gas naturale e rendendo nuovamente il carbone più competitivo in svariati mercati (con tanto di aumento dei costi), compresi quelli occidentali. Improvvisamente, ci siamo ritrovati punto e a capo: il carbone, cacciato dalla porta principale della nostra quotidianità, aveva trovato il modo di rientrare dalla finestra. In realtà, già prima dell’offensiva della Russia nei territori ucraini la situazione era ben diversa da quella raccontata dai media mainstream. E per almeno due ragioni. Intanto perché il carbone ha continuato ad essere utilizzato per alimentare le centrali green e poi, soprattutto, perché il racconto della “fine del carbone” è stato realizzato guardando soltanto all’Occidente, senza cioè considerare il resto del mondo.
La variabile Asia
Già, perché in Asia il carbone ha trovato una seconda giovinezza. Newcastle, in Australia, è stato ribattezzato dall’Economist il “più grande porto di carbone al mondo”. Ne gestisce 200 milioni di tonnellate all’anno ed è probabile che la sua produttività resti ai massimi per i prossimi sette anni. Il motivo è presto detto: dal Giappone alla Corea del Sud, molti Paesi asiatici sono affamati di carbone. Nel 2022, la domanda complessiva di carbone ha superato per la prima volta gli 8 miliardi di tonnellate, spingendo gli analisti a definire il mercato “vivace, ben finanziato e redditizio”. Come detto, la domanda è diminuita sia in Europa che negli Stati Uniti – nel primo caso in concomitanza con l’aumento delle energie rinnovabili, nel secondo perché la pratica del fracking è più economica – ma la crisi energetica del 2022 ha ricordato ai governi del continente asiatico, dipendenti dalle importazioni, che, quando l’energia scarseggia, il tanto demonizzato carbone può rappresentare una valida scialuppa di salvataggio. Perché? Semplice: è più economico e abbondante di altri combustibili e, dal punto di vista logistico, può essere caricato sui mezzi e inviato ovunque, senza preoccuparsi di terminali di rigassificazione, come nel caso del gnl. La tendenza, come ha scritto Reuters, è addirittura già visibile. L'ondata di caldo che ha colpito Cina, Giappone, Taiwan e Corea del Sud, ad esempio, sembra destinata a spingere verso nuovi massimi, da qui alle prossime settimane, l'uso del carbone per la produzione di elettricità. Il tutto nella regione che rappresenta oltre il 60% di emissioni di carbone del mondo, e che presto contribuirà ad incrementare l'inquinamento del pianeta.
Fame di energia, fame di carbone
Le autorità del Giappone e della Cina meridionale hanno invitato le famiglie e le imprese a ridurre il consumo di energia per proteggere le reti elettriche da ulteriori stress. Le alte temperature porteranno, presumibilmente e in gran parte dell’Asia, ad un maggiore utilizzo dei condizionatori, apparecchi affamati di energia. Le previsioni meteorologiche di Refinitiv ipotizzano che le aree intorno a Pechino, Tokyo e Taipei possano assistere a temperature superiori del 4% o più rispetto alle medie a lungo termine per tutto giugno, luglio e agosto. Cina, Giappone e Corea sono tutti grandi utilizzatori di aria condizionata, rappresentando poco meno della metà delle unità di condizionamento d'aria globali installate, secondo l'Agenzia internazionale per l'energia (IEA). È lecito quindi supporre che, durante i periodi di caldo opprimente, cittadini, locali e aziende utilizzino i loro condizionatori, indipendentemente dalle richieste delle autorità locali di risparmiare energia. Tutto ciò, significa che nei prossimi mesi i produttori di energia asiatici si aspetteranno una maggiore domanda di elettricità, e che accumuleranno, di conseguenza, combustibili sufficienti per garantire le richieste ricevute. Come ha sottolineato il think tank Ember, la Cina produce circa il 60% della sua elettricità dal carbone, il Giappone e la Corea del Sud il 30% e Taiwan circa il 43%. Detto altrimenti, il carbone sarà uno dei principali motori della produzione di elettricità in ogni Paese, per lo più di notte, quando l'energia solare si interrompe. Per la cronaca, le emissioni collettive della produzione di energia elettrica a carbone in Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno superato i 4,9 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) nel 2022, e potrebbero superare i 5 miliardi di tonnellate nel 2023, nel caso in cui dovessero essere registrati livelli elevati di utilizzo di carbone. La Cina, nello specifico, è il principale motore dell'uso di carbone regionale e globale; nella prima metà del 2023, Pechino ha aumentato le importazioni di carbone termico di oltre il 70% rispetto allo stesso periodo del 2022, come mostrano i dati sulle spedizioni di Kpler. La sensazione, insomma, è che quest’estate, in tutta l’Asia orientale, i produttori di energia elettrica non avranno altra scelta che aumentare la produzione di energia elettrica a carbone, per poi riprendere gli sforzi per ridurre il suo utilizzo solo quando i livelli della domanda diminuiranno.
Cosa aspettarsi dal futuro
Quando parliamo di carbone dobbiamo farlo, dunque, allargando il nostro sguardo all’intero pianeta. Anche perché, mentre l’Ue sta conducendo una crociata contro l’utilizzo dei combustibili fossili, alimentata dagli adepti di Greta Thunberg e da un ambientalismo più populista che realista, dall’altra parte del mondo il Re carbone sta conoscendo nuovi adoratori. Scendendo nei dettagli, la Cina sta pianificando 270 gigawatt di centrali a carbone entro il 2025, più di quanto qualsiasi altro Paese ne abbia installate fino ad oggi, mentre l'India e gran parte dei governi del sud-est asiatico stanno seguendo un approccio simile. Più in generale, invece, gli investitori asiatici stanno iniziando a sostenere nuove miniere in patria. Qualsiasi dinastia imprenditoriale in Indonesia, dove l'estrazione mineraria è la spina dorsale dell'economia, non può non avere un po' di carbone nelle sue proprietà. In India, invece, alcune ditte immobiliari stanno addirittura avanzando offerte nel tentativo di mettere le mani su terreni dai quali potrebbe essere estratto carbone. Se queste sono le premesse, cosa aspettarsi dal futuro? Le grandi aziende dell’Asia (pensiamo a quelle cinesi) potrebbero investire nei Paesi in via di sviluppo della regione e ad altre latitudini, seguiti da banche e istituzioni pronte a fiutare il colpaccio. Le imprese indiane e indonesiane, che già possiedono molteplici asset legati al carbone in Australia, sono invece destinate a diventare sempre più grandi e numerose. Proprietà delle miniere, gestione, finanziamenti e consumo. Altro che morte annunciata. Il carbone saluterà l’Occidente per diventare la merce più pregiata dei mercati in via di sviluppo.