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Non si esce vivi dall'11 settembre? Dall'attentato alle Torri Gemelle ai droni (russi?) sulla Polonia (nella Nato), ha ragione Fukuyama sulla "fine della storia"? No, ma a una condizione...

  • di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

  • Foto di: Ansa

11 settembre 2025

Non si esce vivi dall'11 settembre? Dall'attentato alle Torri Gemelle ai droni (russi?) sulla Polonia (nella Nato), ha ragione Fukuyama sulla "fine della storia"? No, ma a una condizione...
Dall’11 settembre 2001 all’11 settembre 2025: due date che hanno cambiato l’Occidente. Dalle Torri Gemelle alla violazione russa dello spazio aereo polacco, la Nato è passata dall’Articolo 5 all’Articolo 4. Dal terrorismo asimmetrico alla guerra ibrida, la sicurezza non è più un’illusione. Genova, New York e Varsavia raccontano il passaggio dalla giustizia sociale alla grammatica della difesa. La storia è finita? No, ma si gioca tra prudenza, libertà e sopravvivenza europea

Foto di: Ansa

di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

Ci sono date che non si limitano a segnare un calendario: tagliano la storia come una lama. L’11 settembre 2001 è stato questo: non soltanto un attacco terroristico, ma la fine brutale di una narrazione. L’idea, affascinante e fragile, che la storia avesse perso la sua inerzia, che la modernità liberale avesse finalmente trovato la forma definitiva di sé. Quella promessa, teorizzata in maniera celebre da Francis Fukuyama come “fine della storia”, è stata dissolta in pochi minuti di fuoco, fumo e acciaio piegato. L’immagine delle Torri Gemelle che crollano non è solo il trauma che ritorna; è il messaggio che il mondo inviava a sé stesso: nessuna narrazione della fine, nessuna pacificazione del conflitto. In quei giorni, tutti noi più "vecchietti" ricordiamo benissimo dove eravamo credo (io, in una fumetteria a Catania mentre giocavo a Magic), l’Occidente ha scoperto la propria vulnerabilità strutturale. Ma la risposta istituzionale rivelò un paradosso: per la prima volta nella sua storia, la Nato invocò l’Articolo 5 del Trattato di Washington, cioè la clausola di difesa collettiva – “un attacco a uno è un attacco a tutti” – in seguito all’aggressione dall’esterno perpetrata l’11 settembre. Fu un gesto simbolico potentissimo, e allo stesso tempo un atto che mise in moto operazioni limitate (Eagle Assist, Active Endeavour), senza però trasformare l’Alleanza nell’architettura totale della “guerra al terrore” guidata dagli Stati Uniti. Era come se l’Occidente, proprio nel momento della massima compattezza, mostrasse crepe d’indecisione strategica. Non bisogna banalizzare Fukuyama: il suo non era un sogno ingenuo, ma un’ipotesi filosofica sul compimento della forma liberaldemocratica, come “ultimo uomo” post-storico che, pur tra contraddizioni, vede nella liberal-democrazia la configurazione finale della politica moderna. E tuttavia l’11 settembre ha funzionato come contro-prova: non era la Storia ad essere finita, era finita la nostra illusione di dominarne il corso. Il realismo dell’evento ha corroso l’astrazione del concetto. E, ironia della filosofia, proprio negli anni successivi lo stesso Fukuyama ha temperato la radicalità della sua tesi, ammettendo che la linearità del processo storico fosse, nel migliore dei casi, un’aspirazione più che una diagnosi. Dire che la storia “continua” significa anche riconoscere che l’ordine liberale non è un orizzonte necessario ma una contingenza sempre negoziata, esposta a shock e controsensi. Dopo il 2001, la “pace americana” appariva insieme onnipotente e impotente: capace di proiezione militare senza precedenti e, nello stesso tempo, incapace di tradurre la forza in stabilità. L’Afghanistan e l’Iraq hanno mostrato quanto costi, non solo moralmente, ma filosoficamente, cercare di governare il reale con categorie che presuppongono una prevedibilità che il reale non concede.

L'attacco aereo alle Torri Gemelle in America
L'attacco aereo alle Torri Gemelle in America foto Ansa

C’è un’altra interruzione che l’11 settembre ha prodotto: ha spento, di colpo, il dibattito che poche settimane prima aveva incendiato le strade del mondo. A Genova, nel luglio 2001, il G8 fu attraversato da una protesta planetaria contro l’ordine neoliberale percepito come ingiusto. La “sinistra globale” chiamava in causa Fmi, Wto, la governance economica internazionale, la trasformazione del lavoro e della vita sotto l’egida della finanziarizzazione. Quelle giornate sono ricordate tanto per la potenza del movimento quanto per la violenza della repressione, emblematizzate dalla morte di Carlo Giuliani e dalle denuncia di abusi che hanno segnato la memoria collettiva. Era un conflitto sul progresso e il suo prezzo, un laboratorio di world-making dal basso. Poi, il 12 settembre, quel laboratorio fu oscurato dalla grammatica della sicurezza. Il passaggio fu netto: dalla critica della globalizzazione alla guerra al terrorismo. Non più il capitale come antagonista principale, ma un nemico asimmetrico, sfuggente, de-localizzato. L’attenzione collettiva si spostò dalla redistribuzione alla protezione, dalla giustizia sociale alla prevenzione del rischio. La filosofia pubblica cambiò lingua: l’utopia della cooperazione globale venne archiviata in favore dell’ossessione dell’eccezione. Il “cerchio di Genova” si chiuse a New York. Antonio Negri e Michael Hardt, in Empire (2000), avevano provato a dare un nome alla forma di potere che si consolidava oltre gli Stati-nazione: una rete deterritorializzata, una sovranità diffusa che non coincide più con un centro imperiale ma con un insieme di dispositivi economici, militari, giuridici e culturali. L’11 settembre non “distrusse” l’Impero, ma lo costrinse a rivelare la propria vulnerabilità intrinseca, perché un potere che si espande come rete finisce per esporsi come rete. L’Impero potrà reagire, ma non potrà più presentarsi come invulnerabile. Sul piano filosofico, Slavoj Žižek ha letto l’evento come un ritorno del reale nella scena di una postmodernità assuefatta al gioco dei simulacri: Welcome to the Desert of the Real (2002) è un titolo che è già una diagnosi. Le Torri che crollano non sono interpretabili come un testo; non convocano la nostra intelligenza ermeneutica ma il nostro corpo vulnerabile. La decostruzione cede il passo alla contusione. Da allora, la filosofia è stata costretta a un cambio di passo: meno estetica dell’interpretazione, più etica del rischio, più materialismo politico. 

I soccorsi durante l'attentato alle Torri Gemelle
I soccorsi durante l'attentato alle Torri Gemelle foto Ansa

Oggi assistiamo a un “secondo settembre dell’Occidente”: non perché vi sia un trauma iconico equivalente a Ground Zero, ma perché il dispositivo simbolico che reggeva l’idea di sicurezza europea va, nuovamente, in frantumi. La notte tra il 9 e il 10 settembre 2025, numerosi droni russi hanno violato lo spazio aereo della Polonia durante un massiccio attacco contro l’Ucraina. La risposta è stata immediata: la Polonia ha attivato l’Articolo 4 della Nato, chiedendo consultazioni urgenti sull’integrità territoriale minacciata; aerei polacchi e alleati sono decollati, e diversi droni sono stati abbattuti. Non si tratta più di una “minaccia asimmetrica” nel senso classico post-2001: qui la dinamica è ibrida e interstatuale, un braccio di ferro tra potenze, condotto con strumenti non convenzionali, a cavallo tra guerra tradizionale e guerra di soglia. Essere espliciti sull’Articolo 4 significa ricordare che esso prevede che “le Parti si consultino ogniqualvolta, a loro giudizio, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti sia minacciata.” Non è l’Articolo 5 (difesa collettiva); non implica automaticamente un intervento militare, ma attiva il livello politico e strategico dell’Alleanza. La Polonia lo ha invocato in passato (nel 2022, all’inizio dell’invasione russa su vasta scala), e lo ha fatto di nuovo ora, di fronte a una violazione definita “senza precedenti” per portata e modalità. La differenza con il 2001 è cruciale: allora la Nato invocò il 5; oggi si muove sul 4, segnalando la gravità della minaccia senza ancora codificarla come “attacco armato” al territorio alleato nel senso del 5. Secondo la comunicazione ufficiale della Nato, “nella notte numerosi droni provenienti dalla Russia hanno violato lo spazio aereo polacco; le difese aeree alleate sono state attivate; sono stati coinvolti, insieme alla Polonia, anche alleati con F-35 olandesi, Awacs italiani, Mrtt Nato e batterie Patriot tedesche; il Consiglio Nord Atlantico si è riunito la mattina stessa per discutere la situazione alla luce della richiesta polacca di consultazioni ai sensi dell’Articolo 4.” Non sono dettagli marginali: dicono di un’Alleanza che si muove tecnicamente come un solo corpo, e politicamente preserva la gradualità. Le cronache parlano di 19 violazioni tracciate, aeroporti chiusi per precauzione, drone abbattuti e detriti ricercati sul territorio; il Primo Ministro Tusk ha definito l’episodio “un atto di aggressione” e una situazione “senza precedenti” per la sicurezza dei cittadini, mentre i media internazionali hanno spiegato con chiarezza la ratio dell’Articolo 4 e la differenza con l’Articolo 5. È un passaggio di fase: la soglia simbolica tra guerra ai confini e guerra nel cielo europeo è crossed. La stampa internazionale ha contestualizzato subito: secondo Cbs News, l’incidente è avvenuto tre giorni dopo il più massiccio attacco aereo russo contro l’Ucraina dall’inizio dell’invasione del 2022 e “rappresenta la prima volta” che un membro Nato è noto per aver aperto il fuoco (in autodifesa) da quando la guerra è cominciata; secondo Al Jazeera, il governo polacco ha parlato di “violazione senza precedenti” e ha chiuso aeroporti, invitando i cittadini a rimanere nelle case nelle aree a rischio. Il lessico delle misure eccezionali è tornato stabile nel vocabolario europeo. Per non lasciarsi trascinare dalla retorica, conviene essere precisi. Articolo 4: consultazioni quando un’Alleanza ritiene minacciata l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza. Articolo 5: difesa collettiva in caso di attacco armato contro una o più Parti. Nel 2001 fu attivato il 5 (dopo la verifica che l’attacco provenisse dall’esterno), ma le operazioni autorizzate sotto quell’ombrello furono limitate e, paradossalmente, gli Stati Uniti condussero la guerra in Afghanistan soprattutto fuori dal comando Nato. L’Articolo 4 è stato attivato varie volte nella storia recente (Turchia nel 2012 e 2015; diversi alleati nel 2014 e 2022), a segnalare la plasticità della minaccia nel XXI secolo. È il linguaggio della soglia, la diplomazia della porta socchiusa.

Ground Zero
Ground Zero foto Ansa

L’11 settembre ha prodotto un gesto unico: la prima e finora unica invocazione dell’Articolo 5 nella storia della Nato, con tutte le ambivalenze del caso. Oggi, il “secondo settembre” europeo non chiama (ancora) quella soglia, ma rimette al centro l’Articolo 4 come dispositivo politico. È una differenza semantica che dice molto: tra l’attacco spettacolare a un simbolo e la violazione a bassa quota di confini aerei, il nesso è nella destituzione della normalità. La normalità, semplicemente, non c’è più. Se l’11 settembre impose la figura del nemico liquido–reti terroristiche, cellule dormienti, transnazionalità informale–l’episodio polacco impone un’altra figura: la potenza ibrida, cioè uno Stato che combina strumenti convenzionali (missili, aerei, artiglieria) con strumenti di soglia (droni, cyber, disinformazione, interdizione economica), testando gli spessori della deterrenza senza formalmente oltrepassarli. È una strategia adattiva: spinge l’Alleanza a mostrare i denti senza offrirle l’argomento legale definitivo per morderli. In questo senso, l’Articolo 4 è la grammatica perfetta dell’ambiguità contemporanea: consultare, misurare, calibrare, inviare segnali. È il ritorno di una mentalità da Guerra Fredda, ma senza la simmetria lineare dei blocchi. Oggi le linee sono le pieghe di cui parlava Gilles Deleuze. Le conseguenze filosofiche sono evidenti: la sicurezza, lungi dall’essere un’infrastruttura invisibile, diviene la forma della vita quotidiana–dalla chiusura degli aeroporti a Varsavia alla sorveglianza digitale, fino alle catene di approvvigionamento. Viviamo in un’ecologia dell’attenzione militarizzata. È il passaggio dall’eccezione al metodo. Se l’Impero, per Negri e Hardt, è rete e non trono, allora la contro-rete non è “l’anti-impero”, ma la proliferazione di centri funzionali che si contendono nodi, protocolli, infrastrutture. È in questo contesto che un nuovo baricentro asiatico–trainato da potenze che combinano capacità economico-tecnologiche con modelli politici non liberali–ridefinisce la geografia del potere. Non si tratta del ritorno dell’impero classico; è la maturazione di regimi di sovranità infrastrutturale. L’Occidente è costretto a domandarsi non “come salvare il mondo”, ma “come salvarsi nel mondo”: come preservare forme di vita, istituzioni, memorie. La domanda è meno eroica ma più vera. Qui, la lezione di Empire si fa concreta: il conflitto non è più (solo) sulla bandiera, ma sugli standard, sulle piattaforme, sulle supply chain, sull’intelligenza artificiale e sull’energia. La guerra ibrida è anche guerra di protocolli. Se la Polonia invoca l’Articolo 4 per violazioni di droni, è perché i sistemi (di difesa, di comunicazione, di trasporto) sono già il campo di battaglia. Il fronte è ovunque scorrono dati e vola un micro-rotore. Dopo il 2001, Žižek ci aveva già avvertiti: basta con il godimento estetico della decostruzione–la realtà è tornata come ferita. Oggi la ferita è cronica. Non abbiamo più il lusso del pensiero che gioca in un mondo che resta, indifferente, lì fuori. La filosofia, se vuole essere necessaria, deve essere tecnica e civica insieme: deve capire come funzionano i droni, come si architettano le reti, come si disegna una deterrenza giusta che non conduca alla catastrofe. Non basta più l’ermeneutica; serve l’ingegneria del concetto. Eppure, in questo ritorno del reale, si annida un rischio: trasformare la filosofia in consulenza permanente dell’emergenza. Per evitarlo, occorre ricordare Genova: quella domanda di giustizia non era un equivoco giovanile, ma il cuore di una politica che non vuole consegnare il mondo totalmente alle logiche di sicurezza e di mercato. Il “secondo settembre” ci obbliga a tenere insieme due istanze: protezione e ridistribuzione, difesa e cura. Altrimenti, la sicurezza sarà una promessa che divora le sue ragioni. Se dovessi spiegare ai miei studenti, cosa che non escludo di fare quest'anno, la differenza filosofica tra Articolo 5 (2001) e Articolo 4 (2025), direi così: l’Articolo 5 è la metafisica dell’alleanza; l’Articolo 4 è la fenomenologia della minaccia. Il 5 dice “siamo uno”: l’unità ontologica di un corpo politico che reagisce all’attacco. Il 4 dice “parliamone subito”: la coscienza percettiva che riconosce il pericolo prima di nominarlo “guerra”. Che l’11 settembre abbia portato il 5 e Varsavia il 4 non è un caso: nel primo c’era l’evento che chiedeva il nome; nel secondo c’è il processo che chiede il calcolo. Questa differenza è anche l’indizio di come la storia non obbedisca a finali, ma a modulazioni. 

New York (come il mondo) sconvolta dall'attacco alle Torri Gemelle
New York (come il mondo) sconvolta dall'attacco alle Torri Gemelle foto Ansa

In politica estera, la virtù più difficile è la gradualità: saper inviare segnali netti senza precipitare. La dichiarazione del Segretario Generale della Nato dopo la violazione dello spazio aereo polacco ha seguito proprio questa partitura: condanna chiara, attivazione di difese, riconoscimento della gravità, riunione urgente del Consiglio; ma nessuna precipitazione semantica verso il 5. È la prudenza forte: mostrare prontezza (“difenderemo ogni centimetro”) senza scambiare la prova per il casus belli. Questa prudenza è politica e morale. Gli osservatori hanno colto l’eccezionalità dell’episodio: droni intercettati e abbattuti, consultazioni immediatamente richieste, prime “regole d’ingaggio” de facto nel cielo dell’Est europeo. Che l’Alleanza abbia reagito in modo coordinato–dai caccia F-35 olandesi agli Awacs italiani–mostra che la deterrenza vive anche di coreografia, di capacità di sincronizzarsi in ore, non in settimane. E tuttavia la domanda resta: per quanto tempo si può danzare sull’orlo senza scivolare giù? A questo punto la tentazione del fatalismo è comprensibile: la storia come ingranaggio cieco. Ma l’ultima cosa che dovremmo imparare da questi “due settembre” è proprio l’opposto. Nel 2001, la civiltà delle libertà si è difesa anche grazie alla tenuta delle sue istituzioni; oggi, nel 2025, la democrazia europea non si difenderà soltanto con caccia e radar, ma con comunità resilienti, istruzione critica, alfabetizzazione digitale, cultura della cura. La differenza tra una società aperta e una chiusa non si misura solo sul confine, ma nei paesaggi interni: scuole, biblioteche, media, musei, ospedali. Questo è il nostro terreno–quello che possiamo coltivare, qui e ora. “Salvare noi stessi” non è un gesto egoista né una rinuncia al mondo; è la consapevolezza che ogni architettura globale poggia su fondamenta locali. Se vogliamo che l’Articolo 4 resti consultazione e non preludio, dobbiamo rafforzare ciò che rende le nostre città e i nostri quartieri capaci di assorbire shock: reti civiche, protezione civile, piani energetici distribuiti, infrastrutture digitali pubbliche, dialogo sociale. La sicurezza democratica non è la militarizzazione della vita, è la civilizzazione della sicurezza. Il parallelismo tra i “due settembre dell’Occidente” è, in fondo, semplice: entrambi funzionano come catalizzatori di cambiamenti epocali. L’11 settembre ha svelato la vulnerabilità dell’Occidente davanti a un nemico liquido, costringendo la Nato a invocare l’Articolo 5 e inaugurando l’epoca della guerra all’asimmetrico; l’attacco di droni in Polonia del 2025 (e l’invocazione dell’Articolo 4) delineano il declino di una certezza–che il cielo europeo fosse intangibile–di fronte a un nemico ibrido, una grande potenza che opera per soglie e per attrito. In mezzo c’è Genova, memoria di un’altra possibilità della globalizzazione, e c’è l’Impero: non come ritorno del colonialismo, ma come rete che si contende con altre reti. Se c’è un insegnamento filosofico in tutto questo è che le “mappe vecchie” non bastano più. La geopolitica non è più un planisfero con frecce, ma un diagramma di interfacce. La storia non è finita. Non lo era nel 2001, non lo è oggi. Può non finire male se impariamo a pensare e agire nella zona grigia tra l’Articolo 4 e il 5, tra la protezione e la libertà, tra prudenza e coraggio. Il cerchio, allora, non si chiude davvero: si piega, si flette, disegna una spirale. E in quella spirale possiamo ancora scegliere: tra paura e cura, tra nichilismo e responsabilità. Se chiedi cosa possiamo fare per “salvare noi stessi”, la risposta è antica e nuova: smettere di delegare alla storia la funzione di destino. La storia siamo noi. Col nostro modo di abitarla, di pensarla, di renderla giusta, qui, adesso.

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