Seduto sul pavimento di casa, sullo sfondo una porta, le pareti con la carta da parati, a volte un armadio. L’illuminazione è spesso quella minima indispensabile soprattutto nelle dirette serali, e questo aiuta a capire meglio il significato di coprifuoco in tempo di guerra: nascondere le luci per non diventare un bersaglio, e magari questo può aiutarci a vergognarci un po’ per avere utilizzato il termine quando non si poteva andare a bere una birra fuori nei momenti peggiori della pandemia. Per necessità e non per scelta, questo è ciò che si vede alle sue spalle, e la percezione puramente estetica è quella di chi non parla dalla cattedra, nonostante l’inquadratura dal basso verso l’alto: Vladislav Maistrouk, 37enne giornalista ucraino cresciuto in Toscana, dal giorno dell’invasione russa è diventato quasi per antonomasia la voce del popolo ucraino sulle televisioni generaliste italiane.
Maistrouk ha costruito la sua carriera di giornalista e produttore televisivo in Ucraina, sua patria d’origine, ma ha vissuto una parte significativa della sua vita in Italia da quando, con lui bambino, la sua famiglia si trasferì a Grosseto, dove ha iniziato il suo percorso scolastico culminato con la laurea all’Università a Firenze. Proprio a Grosseto, dove ancora vive la madre, hanno riparato nei giorni scorsi - lo ha raccontato La Nazione - la moglie e il figlio del reporter, oltre ad altri tre parenti in fuga da Kiev. Lui è rimasto nella capitale ucraina, ed è da lì che il pubblico italiano ha imparato a conoscere il suo volto, la sua voce e la sua versione che, non avendo toni di grigio, è straordinariamente funzionale alla logica dei talk show.
Duro, esplicito, divisivo perché di parte ma della parte che sta sotto le bombe, Maistrouk negli ultimi giorni è stato capace di ipnotizzare milioni di persone tutte le volte nelle quali è stato chiamato ad intervenire nei programmi in cui l’ospite è tutto. Cartabianca, Fuori dal coro, Non è l’arena, L’aria che tira, Piazzapulita (che nella puntata di giovedì 3 marzo, con lui in collegamento, con il 7,3% di share è stato il terzo programma più visto della serata, il primo di informazione): dovunque Maistrouk sbatte in faccia ad analisti e commentatori ciò che non vogliono sentirsi dire, incalza senza remore su Putin e riporta la resistenza dei suoi connazionali che la Russia chiama nazisti, sferza l’Occidente “vigliacco e che per otto anni ha fatto finta di non vedere”, destabilizza astanti e spettatori con la cruda schiettezza di frasi glaciali e senza la minima empatia per chi provi in qualche modo a comprendere il punto di vista russo.
In questo senso Maistrouk, rispetto a tutte le controparti, ha un paio di vantaggi competitivi che può sfruttare: è ucraino ed è per questo la voce della nazione aggredita - aspetto su cui non si può discutere - ma anche e soprattutto si trova a Kiev, e ciò significa che parla da un territorio di guerra mentre tutti coloro con i quali si confronta si trovano quasi sempre in studio o a casa, a migliaia di chilometri dal conflitto, dove possono pontificare dopo una sessione di trucco e parrucco. Sa bene di poter disporre di questa argomentazione palese e non si fa problemi ad usarla a proprio gioco: funziona perché i suoi toni senza mezze misure sono i più vicini a quelli del conflitto, fa leva sulla dimensione emotiva e, in questo senso, provoca nei suoi stessi confronti anche una polarizzazione della quale chi lo invita sa di poter approfittare in termini di efficacia della trasmissione.
Dal punto di vista degli autori si tratta di una logica conosciuta, ampiamente sperimentata e perfezionata nei mesi della pandemia con la compresenza di esperti dalle tesi opposte, diventati tutti riconoscibili - e ognuno con i propri tifosi - per la nettezza dei toni. Ma la scoperta di Maistrouk da parte dei talk show oggi differisce dalle migliaia di puntate di analisi sulla pandemia strutturate per essere più o meno ammiccanti nei confronti dell’uno o dell’altro schieramento: la differenza la fa il contesto di guerra. Quella vera.