Con chi ce l’avesse Daniela Santanchè ieri, durante l’informativa in Senato sull’inchiesta giudiziaria per bancarotta e falso in bilancio che riguarda la sua ex società Visibilia, quando ha fatto del sarcasmo sui “molti” che “in privato” non le riserverebbero “critiche feroci”, bensì richieste di prenotazione “nei locali di intrattenimento” da lei fondati, non è dato sapere con certezza. Come ha scritto il Foglio, in quell’istante tutti si sono girati verso il capogruppo del Pd, Francesco Boccia, marito della conduttrice (ed ex politica) Nunzia De Girolamo. Imbarazzo comprensibile. Boccia che prenota un tavolo al Twiga, il localone per vip a Marina di Pietrasanta da 700 euro a coppia a giornata, bevande escluse, gestito dal gran visir della movida più truce, Flavio Briatore? E perché no? Il tempo della sinistra acquartierata nella sola mitologica Capalbio è tramontato, anche perché è tramontata la sinistra, antropologicamente intesa (e per fortuna, da un certo punto di vista). Il diretto interessato non ha finora smentito. E ha fatto bene: mettersi a questo livello, da pettegolezzo in piena aula parlamentare - “farò di quest’aula sorda e grigia un privè per le mie camicie hawaiane”, avrebbe potuto dire la destrissima Pitonessa - vorrebbe dire darsi un calcione nei didimi da solo. Tanto più che, poraccio il Boccia, ieri se n’era pure uscito nelle agenzie stampa con una dichiarazione che parzialmente chiudeva alla mozione di sfiducia del Movimento 5 Stelle (“Se si fa per farcela respingere, è un esercizio che non ci appassiona”). Non proprio feroce, insomma.
Il tavolo al Twiga come metafora dell’ipocrisia, dunque, secondo Daniela l’imprenditrice. Ipocrita è il termine greco che sta per “attore”. Chi non porta una maschera, alzi la mano. Di certo a non aver bisogno di indossarne una è Ignazio La Russa, che del Senato è presidente e notoriamente molto vicino alla ministra. O forse, meglio, è la ministra vicina a lui. Sono finiti da un pezzo i tempi del La Russa fascistone missino coi capelli lunghi che arringa le folle nella scena iniziale di “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio, anno 1972. Ignazio oggi recita la parte, funzionale a fare l’en plein di voti a destra per la Meloni, del sincero democratico che però ogni tanto fa qualche sparata ambigua per tenersi buoni i residui elettori rimasti, più o meno dentro, fascisti. Ma per il resto, bando alle cupezze: alla riapertura del Twiga nello scorso aprile c’era pure lui, la seconda carica dello Stato, blindato e scortato e ben felice di presenziare al party con musica a palla, bellone e belloni e tutta la vipperia e pseudo-vipperia a rimorchio del briatorismo, vera ideologia del subconscio di destra. In ottima e conseguente compagnia, sia chiaro: all’appello non potevano Fabrizio Corona, l’imperatore del gossip, e la cantante Anna Tatangelo.
L’anno scorso, per la verità, aveva reso l’onore di una visita al Twiga niente meno che Lei, la futura Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, allora “solo” capo di Fratelli d’Italia. Ci aveva fatto una capatina in giugno, commensale fra i commensali assieme al padrone di casa Briatore, al figlio di lui Nathan Falco, e ovviamente alla Santanchè (ai tempi ancora socia). Quella sera, a scatenarsi in pista c’era pure la donna più potente d’Italia dopo di lei, la influencer di tutte le influencer Chiara Ferragni. Che colpaccio, sarebbe stato improvvisare un’intervista doppia alle due signore più influenti del Belpaese. Una che mostrava sui social due meloni ad altezza seno, e l’altra lanciatrice di profondi messaggi politici dal palco di Sanremo. Cosa avremmo dato per essere lì (con garanzia di rimborso spese, però). Altro che Alba Parietti, Barbara D’Urso e le altre star e starlettes della televisione. È la Meloni la più brava comunicatrice, quanto meno di sé stessa, perché ha capito quanto valga stare zitti il più possibile per chi voglia navigare al governo superando scogli, tempeste, bufere, pirati e ammutinamenti. È semplice: basta parlare e farsi vedere il minimo sindacale (anche se, quando si fa convincere dal responsabile social Tommaso Longobardi a inscenare qualche “diretta”, produce quegli spot vagamente horror con lei che apre la porta del Consiglio dei Ministri come se se svelasse da dietro le quinte il palco dell’Ariston – ah, Ferragni, dove sei?). Ma nel giugno 2022 sora Giorgia non era ancora il capo del governo dell’Italia proletaria e atlantista. Adesso non si farebbe mai beccare al Twiga. E non per i guai che rosolano la Santanchè. Perché è intelligente.
Uno che invece al Twiga non ci ha mai messo piede e probabilmente mai ce lo metterà è il guastatore semi-occulto che dentro la maggioranza si sta prendendo la rivincita sulla Meloni, e sulle sue scelte in fatto di nomine, usando la Pitonessa come pretesto: Matteo Salvini. Chi mastica il linguaggio cifrato della politica, dei suoi sgambetti e raggiri mascherati da atti dovuti o addirittura da favori, ha capito da giorni che a pompare il caso Santanchè, più dell’opposizione, sono gli amici-nemici alleati di governo. Cioè Lega e Forza Italia, che hanno votato con il Pd un ordine del giorno sulla cassa integrazione straordinaria da Covid che, guarda caso, citava a unico esempio Visibilia. E in particolare, nell’audizione di ieri in Senato, la Santanchè aveva a fianco un Capitano leghista che, come gli succede di regola quando vuol marcare visivamente la distanza, non ha staccato gli occhi da ipad e carte e, non appena la ministra del Turismo ha concluso il suo monologo, si è alzato, ha girato i tacchi e ha preso la via dell’uscita. È l’antica disfida, risalente al periodo gialloverde quando il Carroccio governava con i grillini, fra Twiga e Papeete, il locale sulla spiaggia di Milano Marittima preferito dal leader della Lega. Nell’agosto 2019, all’indomani dell’inizio della crisi del Conte 1 (che prende il nome, appunto, di crisi del Papeete), una Santanchè improvvisatasi dj, abito maculato, cuffiette alle orecchie e coroncina di fiori in testa, ammanniva alle masse lo slogan di riscossa: “Altro che Papeete! Twiga!”. W la Twiga era il grido di battaglia. Era.