Sebastiano Visintin continua a dire che è “tranquillo”, ma il castello che si è costruito intorno al giorno in cui Liliana Resinovich è scomparsa – e poi morta – sembrerebbe cominciare a mostrare più di una crepa. Lui è l’unico indagato, mentre l’ipotesi di suicidio è finita nel cassetto. Ora si parla di omicidio, ma ancora senza un volto. O quasi. Le indagini si sono riaperte con slancio e, insieme a quelle prove materiali rimaste troppo a lungo senza voce – fibre, coltelli, guanti – ci sono anche i video registrati da Visintin con una GoPro. Dovevano essere il suo alibi. Ma a quanto pare non tornano: i tempi sono sfasati, qualcosa non quadra. E quegli stessi abiti che lui indossava mentre si riprendeva – il maglione giallo e i guanti arancioni – sono ora sotto la lente degli investigatori. Una fibra trovata sul corpo di Liliana potrebbe ricondurre proprio a quel maglione.


In casa di Visintin, durante una perquisizione durata sette ore, sono saltati fuori anche coltelli – tanti – che lui stesso forgiava e affilava da anni per i locali di Trieste. E ora quegli oggetti diventano potenziali prove. Ma lui, intervistato dal Piccolo, non sembra smuoversi di un millimetro: “Sono sereno”, dice, “sto collaborando con i miei legali e non mi sono mai opposto a nulla”. Solo, si lamenta dell’assedio dei giornalisti: “Mi suonano il campanello anche di notte, mi aspettano fuori casa, mi battono la porta”. Per prendere fiato, si è concesso un weekend in Austria e ha passato la Pasqua a Fano. Un momento di tregua, forse, prima che arrivino risposte dagli inquirenti. O dai consulenti che lui stesso ha nominato: Noemi Procopio, esperta di microbiota, dovrà analizzare un frammento di pelle di Liliana per risalire al giorno esatto della morte. Un altro tecnico – al momento ancora anonimo – si occuperà invece dei video, dei cellulari e dei tabulati. Nel frattempo, Visintin va “avanti per la sua strada”. Ma la strada, stavolta, sembra sempre più stretta.

