Se c’è una persona che ha conosciuto intimamente l’assedio di Sarajevo, con i suoi cecchini serbi a caccia di civili bosniaci, quella è Toni Capuozzo. Quella guerra l’ha raccontata dal primo giorno dall’interno della capitale bosniaca. Ed è sua la “lettera allo Snajper”. Una leggenda metropolitana che circolava a Sarajevo, raccolta da Capuozzo quando i bosniaci in fila per il pane venivano cecchinati dai tiratori serbi, che giocavano al tiro al bersaglio per mantenere in piedi il terrore. Era la leggenda di un ingegnere, Fadil Bakšić, che ad un certo punto, stufo di attraversare di corsa gli incroci della sua città per il timore di essere ammazzato come selvaggina, si ferma al centro, si volta verso il suo nemico invisibile, lo “snajper”, e inizia a sfidarlo. Una sfida lunga un anno, una competizione psicologica che si conclude con la vittoria di Fadil Bakšić sul suo nemico. Lo batte sul tempo, al centro del suo mirino, suicidandosi con una pistola prima che il cecchino abbia tempo di premere il grilletto. Pensare che tra le file di questi assassini silenziosi vi fossero anche dei turisti, italiani, che in contatto con militari di Belgrado in cerca di soldi, si divertivano a uccidere civili adulti o bambini da mutilare come in safari organizzato da bracconieri fa venire la pelle d’oca. Premere il grilletto di un Mosin Nagant con una guida pagata, è una storia inquietante che ci ripropone, ancora più sporche, quelle pagine macchiate di sangue e tenute insieme da una pace fragile. Quelle della guerre nei Balcani. I cecchini della domenica, morte sotto il sole in un solo titolo, una storia ricomposta in un esposto trasmesso alla Procura di Milano dallo scrittore milanese Ezio Gavazzeni, e ora nelle mani del Pm Alessadro Gobbis, che insieme all’avvocato Guido Salvini, già pm nei più grandi processi per strage negli anni di piombo, e all’avvocato Nicola Brigida, stanno ricostruendo pezzo dopo pezzo questa storia di annoiati assassini della domenica, con l’obiettivo di rintracciarli, e assicurarli alla giustizia, per quanto la giustizia, dopo quarant’anni possa avere il suo senso.
Gavazzeni, attraverso una fonte bosniaca, viene a sapere che alla fine del 1993 l’intelligence di Sarajevo aveva segnalato al Sismi la presenza, sulle colline che cingevano la città assediata, di almeno cinque italiani. Non soldati, ma civili, turisti dell’orrore, accompagnati da militari serbi per sparare sui passanti come in un safari. A giustificare la presenza dei nostri servizi segreti sul posto era la missione Onu, l’Unprofor, di cui anche l’Italia faceva parte con truppe e mezzi. Ma, come racconta Edin Subašić, ex agente bosniaco e fonte di Gavazzeni, non era affatto semplice far arrivare quegli stranieri fino a Sarajevo in piena guerra. A rendere pubbliche queste testimonianze è stato il documentario “Safari Sarajevo”, diretto da Miran Zupanič, un film che ha sollevato un polverone e aperto una breccia nella memoria collettiva. È lì che Subašić rivela di aver appreso le proprie informazioni da un prigioniero serbo: questi raccontò di aver viaggiato da Belgrado verso la Bosnia con cinque stranieri, tra i quali almeno tre italiani - uno di Milano, uno di Torino e uno di Roma. Ricchi, curiosi, forse solo malati, uomini che pagavano per uccidere. Secondo la fonte, un fenomeno simile si starebbe ripetendo oggi in Ucraina, come già accadde in Libano. All’epoca di Sarajevo, tutto partiva da Trieste, lì si riunivano, da lì volavano verso Belgrado, e con mezzi di terra raggiungevano le postazioni serbe sulle alture della capitale bosniaca. L’organizzazione era impeccabile, quasi militare. A occuparsene era la compagnia charter serba Aviogenex, filiale triestina della Genex jugoslava, società che negli anni Sessanta esportava armi e restava saldamente controllata dai servizi segreti di Stato. Non stupisce, quindi, che a garantire l’operazione fosse un uomo come Jovica Stanišić, l’allora capo dei servizi, poi condannato per crimini di guerra dal Tribunale dell’Aia. Subašić aggiunge un dettaglio inquietante, tra i cecchini individuati ce n’era uno che, tornato in Italia, aveva ripreso la sua vita agiata — un medico milanese, proprietario di una clinica estetica.
Dopo l’uscita del film, la sindaca di Sarajevo, Benjamina Karić, ha presentato una denuncia penale contro ignoti, chiedendo di indagare sugli autori del safari. Ma dall’altra parte della città, nella Sarajevo Est rimasta sotto controllo serbo, il sindaco Ljubiša Ćosić ha denunciato il regista Zupanič per diffamazione e incitamento all’odio nazionale. Il procedimento contro Zupanič è stato archiviato - “nel film non c’è diffamazione”, hanno scritto i giudici - ma l’inchiesta sui cecchini, sui veri assassini, si è fermata. “Nonostante abbia fornito decine di informazioni utili, tutto è stato bloccato”, racconta Subašić. “Il sistema giudiziario della Bosnia è nel caos. I crimini più gravi non vengono indagati. E la procuratrice Mari Jana Čobović, che dovrebbe occuparsene, è vicina ai nazionalisti serbi”. Di fatto, nessuno ha più messo mano ai fascicoli. I documenti che potrebbero provare la corrispondenza tra i servizi italiani e quelli bosniaci restano classificati come top secret, sigillati negli archivi militari di Sarajevo. Solo un tribunale potrebbe ordinarne la desecretazione. Ma nessuno, finora, lo ha fatto. E allora, a proposito di questa storia che sembra uscita da un incubo, abbiamo chiamato Toni Capuozzo, lo storico inviato di “Lotta Continua”, il cronista che quella guerra più di ogni altro l’ha respirata giorno per giorno, tra i colpi dei cecchini e la polvere di Sarajevo, e come nessun altro ha saputo raccontare la tragedia.
Lei che ha vissuto come cronista tutto l’assedio a Sarajevo, era mai venuto a conoscenza di questa storia?
Se ne parlava, però le voci riguardavano persone che venivano da Belgrado. Non avevo mai sentito parlare di italiani.
Lei ha idea di che tipo di personaggi potrebbero essere coinvolti?
È una vicenda dell’orrore. Cioè, che alcune persone fossero disponibili a pagare, presumibilmente a pagare, per poter di fare il tiro al bersaglio, per divertimento, su dei civili innocenti… è una cosa che appartiene più a un film dell’orrore che non alla realtà. Però, se sarà possibile ritrovare delle prove. Sarajevo era una città dove attraversare gli incroci era una specie di roulette russa. Se eri un civile, prima di attraversare, aspettavi al riparo che ci provasse qualcuno prima di te, e se ce la faceva, allora tentavi anche tu. Era un tragico gioco al piattino con il tuo aguzzino. Stavano poi in alcuni palazzi distanti poche centinaia di metri dalla città, un vassoio d’argento alla loro mercé. Una cosa già terribile di per sé. Figuriamoci farlo per divertimento.
Lei scrisse molto del cecchinaggio a Sarajevo. Questa vicenda quali ricordi le fanno tornare alla mente?
L’unica leggenda metropolitana, dentro una città assediata senza luce, senza acqua, dove le voci correvano, si moltiplicava, che poi ho provato anche a scrivere era quella di un uomo che si tolse la vita con una pistola tirata fuori dalla tasca, davanti al cecchino, battendolo sul tempo. Non c’era conferma, era una leggenda, ma diceva molto sul grado di esasperazione delle persone. Perché tu sapevi - era un meccanismo tremendo - che alcuni incroci erano protetti da grandi coperte che impedivano la vista ai cecchini, ma altri, dove questo non era possibile, tu sapevi che potevi essere visto da uno sconosciuto che se ne stava lì accovacciato, a qualche centinaio di metri, magari fumando una sigaretta, in attesa di trovare il bersaglio giusto. Una delle cose più terribili è che ci sono stati molti bambini feriti dai cecchini. Perché sceglievano di non ucciderli, ma di ferirli per dare una lezione, e poi per impegnare, nel dolore e nella cura, i parenti, la città. Questo ferire non era un gesto di generosità, ma di una cattiveria ancora più perversa.
Il fatto che se ne parli solo adesso potrebbe avere a che fare con la diplomazia italiana in Serbia?
Sono passati quasi quarant’anni, non credo sia questo il caso. Mi fa riflettere sul fatto che allora non capivamo niente di quella guerra, di quell’assedio. Ma ho ricordo come unica emanazione di solidarietà dall’Italia alcuni volontari che portavano soccorso. Ricordo che ovviamente avevamo le nostre buone ragioni, era l’Italia di “Mani Pulite”, era l’Italia delle stragi di mafia. Non eravamo di certo troppo attenti a quanto succedeva a un’ora di distanza.
Ad oggi in che stato di salute si trovano i rapporti tra Bosnia e Serbia?
Sarebbe meglio dire “tra la Serbia e le bosnie”. Quel paese è diviso in tre, quindi parlare dei rapporti tra “la Bosnia” e la Serbia è già di per sé complicato. È una situazione, credo, un modello esemplare delle paci che ci aspettano.
Cosa intende dire?
Quando noi parliamo di pace fingiamo che si tratti di una stretta di mano tra amici, il ricominciare da capo. Invece la pace è semplicemente la guerra ibernata, fermata per stanchezza, come fu la pace di Dayton. Alcune divisioni e contraddizioni sono ancora tutte lì, sotto traccia. Probabilmente sarà così anche la pace attorno a Gaza, sarà così la pace fra Russia e Ucraina, sono paci che non sono la fine della guerra, ma solo la fine degli spari.
Quali sono le questioni che rimangono aperte ancora oggi tra Serbia e Bosnia?
Credo che la faglia più profonda, in questo momento, continui a essere in Bosnia, non tra i vari Paesi. In Bosnia è chiaro che la Repubblica Srpska ha sempre aspirato a far parte della Serbia e a rendere chiaro a tutti che la Bosnia è un’invenzione della comunità internazionale, con il suo sogno di tenere assieme quelli che non vogliono stare assieme. Sicuramente è meglio la separazione che il matrimonio forzato.