Presto la guerra in Ucraina potrebbe essere soltanto uno dei nostri innumerevoli problemi, se parliamo di sicurezza internazionale. Con buona pace dei teorici della “fine della Storia” (Francis Fukuyama), archiviata la Guerra Fredda e il conseguente periodo unipolare a trazione statunitense (1990-2001), lo scacchiere internazionale è stato animato dal ritorno della rivalità fra grandi potenze, in uno scenario sempre più “fluido” e incerto, che gli esperti definiscono “multipolare”, ovvero sia segnato da un’aspra competizione per la sicurezza che coinvolge più nazioni. Ne abbiamo parlato con Emanuel Pietrobon, analista geopolitico ed esperto di InsideOver, autore del saggio “L’arte della guerra ibrida. Teoria e prassi della destabilizzazione” (Castelvecchi).
Partiamo da una premessa: che significa “guerra ibrida”?
La guerra ibrida è un tipo di conflitto che mescola elementi convenzionali e non convenzionali, talvolta esclusivamente non convenzionali, quali, ad esempio, interferenze elettorali, sanzioni, terrorismo, disinformazione, hackeraggi, sabotaggi alle infrastrutture e operazioni psicologiche. Una guerra ibrida può preparare il terreno ad una guerra vera e propria, ma, sempre più spesso, ha come obiettivo precipuo la destabilizzazione della vittima. In breve: gli Stati conducono guerre ibride perché le ritengono, a ragione, degli strumenti efficienti ed economici coi quali indurre i loro rivali in una condizione di cronica debolezza. Una guerra ibrida è totale quando combina in maniera intelligente una vasta gamma di mezzi, dalle operazioni psicologiche per disorientare e confondere l'opinione pubblica alle sanzioni o speculazioni finanziarie per rovinare un'economia, false bandiere (false flag) per spaesare gente comune e decisori, terrorismo, epidemie e molto altro ancora. Le guerre ibride sono pericolose perché non sono precedute né accompagnate da dichiarazioni formali di guerra, sebbene siano, nei fatti, un'invasione silente e multidimensionale. Possono iniziare e finire in qualsiasi momento, senza, magari, che la vittima se ne renda conto.
Ok, questa è la teoria. Ma nel libro si parla anche di casi concreti, no?
L'obiettivo del libro è mostrare come le guerre ibride non siano tutte uguali, poiché ogni (grande) Stato ha un proprio modus operandi. Ho scelto dei casi studio che mi permettessero di indagare i modi cogitandi et operandi delle corporazioni multinazionali – ché anch'esse conducono guerre ibride – e delle più importanti potenze di ieri e oggi: Cina, Francia, Inghilterra, Russia, Stati Uniti e Vaticano. E c'è stato anche spazio, ad esempio, per fare luce sulle attività di potenze minori, come la Turchia.
Veniamo al sodo. Dove potrebbe scoppiare un’ipotetica guerra mondiale capace di coinvolgere più Paesi?
Bella domanda. La Storia suggerisce che le più grandi guerre scoppino all'improvviso e in luoghi distanti dai riflettori. La guerra di Crimea nacque sulle rive del Danubio. La Prima Guerra Mondiale si originò a Sarajevo. E così via. Penso che siamo ancora lontani dalla materializzazione della Terza Guerra Mondiale, anche se, poco alla volta, impercettibilmente, blocchi si compattano ed espandono, alleanze si formano e corse alle armi prendono piede. Siamo, oggi, da qualche parte tra il 1884 e il 1914.
Cioè?
Perché una nuova guerra mondiale scoppi, sarebbe necessario che le relazioni tra i blocchi si deteriorassero a livelli straordinari e che, non meno importante, esistessero delle alleanze militari multinazionali o una molteplicità di patti di mutua difesa interstatali. Pensiamo all'Ucraina: sarebbe stata guerra mondiale se la Russia fosse riuscita a coinvolgere nel conflitto Bielorussia, l'OTSC e partner esterni, come Iran e Cina.
Tra i possibili focolai, si parla di Serbia e Kosovo. Stiamo davvero rischiando grosso nei Balcani?
La guerra in Ucraina ha liberato nel mondo tensioni che si erano accumulate negli anni, a volte nei decenni, e verrà ricordata come l'equivalente contemporaneo dell'apertura dello scrigno di Pandora o, per utilizzare un termine che mi piace molto e che è stato coniato dal politologo Salvatore Santangelo, come una sorta di “super-11 settembre”.Il crescendo di instabilità nel Serbia-Kosovo si inquadra in questo contesto di sommovimenti provocati o catalizzati dalla guerra in Ucraina. Conclusa la breve parentesi stabilizzatrice della presidenza Trump, che ha provato a gettare le basi per una normalizzazione tra Serbia e Kosovo, ora si è davanti alla pericolosa prospettiva di una cronicizzazione, o permanentizzazione, della tensione. E i rischi di un simile scenario sono evidenti: dalle difficoltà di gestire le escalation, alla possibilità di incidenti in grado di fungere da casus belli.
Come uscirne?
L'Occidente sarà sotto ricatto nel Serbia-Kosovo, e in esteso nei Balcani occidentali, fino a quando non troverà una soluzione permanente, di natura vincente-vincente, a tutti i problemi irrisolti della disgregazione iugoslava – che è, a scanso di equivoci, ancora in corso. Urge capire se la Bosnia ed Erzegovina ha un futuro e se di quel futuro può far parte l'Entità serba. Urge capire se le tensioni tra Serbia e Kosovo si potrebbero risolvere attraverso uno scambio di territori. Urge un dibattito sulla Macedonia del Nord. Ma, al momento, discussioni di questo tipo mancano completamente. Si preferiscono dei palliativi, come gli accordi sul disaccordo e le posticipazioni, ignorando gli ammonimenti della Storia.
In Ucraina si combatte una guerra ibrida su più livelli. Chi vincerà alla fine, se dobbiamo fare una previsione?
L'Occidente ha vinto nella misura in cui è riuscito a sabotare il piano originale della Russia, consistente in un'operazione lampo atta a rendere possibile un cambio di regime, e a fare dell'Ucraina il teatro di una guerra di logoramento che ricorda le esperienze dell'operazione Ciclone e del contenimento duale Iran-Iraq. L'Ucraina ha vinto perché ha resistito al di sopra di ogni aspettativa, nella guerra ha forgiato una propria identità nazionale, ha dimostrato di saper condurre attacchi in profondità nel territorio russo e ha fermato l'avanzata dell'invasore lungo il Dnipro. L'Ucraina ha anche ottenuto dei risultati egregi nella guerra delle narrazioni. Guerra che ha vinto in (quasi) tutto l'Occidente, ma questo era abbastanza scontato – mi avrebbe stupito il contrario –, e in gran parte dello spazio post-sovietico, dalla Moldavia al Kazakistan.
I russi hanno commesso molti errori in questa guerra. Quali sono quelli più gravi?
L'errore più grave è stato di sottovalutazione. L'apparato spionistico ha lavorato male, non ha saputo cogliere i (tanti) segnali sul campo che puntavano in direzione di una tenace resistenza popolare in caso di invasione. Il Cremlino ha sottostimato la volontà degli Stati Uniti di rifarsi per l'ignominiosa ritirata dall'Afghanistan e di inviare un segnale al mondo intero, ma in particolare a Russia e Cina, attraverso il sostegno a oltranza all'Ucraina. I piani di guerra della Russia sono stati cambiati così tante volte, così come tante sono state le sostituzioni ai livelli medio-alti, che viene da chiedersi se sia soltanto una teoria, o qualcosa di più, quella che vedrebbe Vladimir Putin caduto nel “tranello” di Joe Biden.
Quali errori, invece, rischia di fare l’Occidente?
Più che di Occidente, parlerei di Unione Europea. L'Ucraina, per ovvie e legittime ragioni, è oggi e sarà domani un semenzaio di sentimenti politici di difficile gestione e agenti in senso contrario al riavvio del dialogo UE-Russia. L'avvicinamento dell'Ucraina all'UE segnerà l'allargamento della cosiddetta “nuova Europa”, composta dall'ex Patto di Varsavia, e l'aumento della sua influenza all'interno dei circoli decisionali sovranazionali. Esiste il rischio concreto che un'Ucraina sotto influenza polacco-britannica si riveli un problema per la moderatezza della politica estera dell'UE. È imperativo che si eviti che l'Ucraina diventi la longa manus dei nemici dell'unità europea, come Londra, e che la si aiuti a diventare un ponte tra continenti e civiltà.