L’Italia è paese più complicato del mondo si diceva una volta, ed è ancora così. Per il semplice fatto che i gruppi di potere contano da sempre più delle idealità, e queste ultime (antifascismo, fascismo, comunismo, cattolicesimo, ecc) sono uno spolverino rappresentativo che copre movimenti più vitali e molto più tribali. Alcuni lo chiamano “familismo amorale”, che è comunque meglio del “familismo moralista”. Fatto sta che per conoscere l’Italia bisogna conoscere più i gruppi di potere che le loro prese di posizione politiche. Le classi dirigenti transitano da un regime all’altro quasi intatte, dallo stato sabaudo al fascismo, alla democrazia molto imperfetta dal ‘45 in poi, alla cosiddetta Seconda Repubblica: conta più un direttore generale di un ministro. Poi l’Italia (che è sempre il paese che amiamo) è ancora il non-paese descritto da Jacob Burckhardt nel suo classico sulla civiltà del Rinascimento. Signori in lotta per il proprio feudo. Artisti e intellettuali anche loro impegnati in guerriglie tribali. Sia il signore (oggi si direbbe: il politico), che l’Intellettuale (oggi si direbbe lo scrittore, il saggista, il personaggio televisivo), culturalmente soli, non avendo una ideologia ma una famiglia e case da mantenere sì hanno l’esigenza di delegare tutto a una rappresentazione, di solito a noleggio. Di qui l’ossessione italiana per le forme, immobili proprio perché sono di cartapesta e a spostarle mostrerebbero crepe e magagne. L’italia non è “teatrino” della politica, è teatro rituale, sul filo dell’orrore del vuoto. Paolo Madron è uno che l’Italia la sa raccontare – e ce la siamo fatta spiegare in questa intervista -, perché conosce il potere, conosce il teatro, è capace di distacco formale. Vicentino, nato nel ’56, laurea in Semiologia del cinema a Padova, anni come inviato a New York, dove scrive di finanza. Fondatore e direttore di Economy, editorialista de Il Sole 24 Ore, firma del Corriere della Sera. Centinaia di scoop: nel 2000 fece saltare la fusione Seat-Telecom dandone notizia e bruciandola, è stato lui a strappare a Gianni Agnelli la notizia del mancato accordo tra Fiat e Chrysler. Alcuni, picareschi, fallimenti - inconvenienti del mestiere - «Nel 1991, quando c’è stata la guerra per il controllo di Mondadori ero a Milano Finanza - racconta Madron a MOW - uno degli attori era Carlo De Benedetti. Una sera andai fuori dal Carlyle, bellissimo albergo sulla quinta strada. Era a cena con l’ambasciatore italiano, lo aspettai per ore al freddo, quando uscì ero già cadavere. Infilò queste magnifiche scale rosse, gli dissi: “Sono qui che la sto aspettando, mi dica qualche cosa”. Lui: “scriva che mi ha visto”. Sono cose normali nel lavoro di giornalista» conclude e sorride.
L’ultimo libro di Madron è “I potenti al tempo di Giorgia”, scritto con Luigi Bisignani, ecografia più che radiografia del potere delle destre in una fase complicata della storia italiana. Madron è anche un autore d’opera - dicevamo, il teatro -. Dalla sua versione de Il Piccolo Principe, a quella de Il Mago di Oz, al suo Alice nel paese delle meraviglie, i suoi lavori, in coppia con il compositore Pierangelo Valtinoni sono stati rappresentati alla Scala, alla Fenice, al Regio di Torino, e in molti teatri europei. La sua nuova/antica creatura è lettera43.it, che era stata fondata nel 2010 e da qualche giorno ha ripreso le pubblicazioni dopo due anni di stop (durante i quali era stata sostituita da Tag43). Piccola sede a Milano, redazione snella, collaboratori scelti. Giornalismo di notizie e retroscena su posti chiave del potere italiano, economico e amministrativo. Con il giusto di ironia e un gusto per i calembour nei titoli.
Che senso ha riaprire un giornale nell’era delle piattaforme che inglobano l’informazione, e soprattutto nell’era degli articoli scritti dall’IA?
Vuol dire riprendere un’esperienza interrotta bruscamente. Mi sono chiesto anch’io perché farlo. Ma Lettera43 è sempre stata e continuerà ad essere un giornale di notizie, di indiscrezioni, di news scelte. L’intelligenza artificiale è buona per scrivere pezzi da Seo: quando l’IA sarà in grado di trovare le notizie magari sarà il momento di chiudere davvero. Per ora serviamo a scrivere quello che ChatGPT non sa scrivere.
Che succede nel panorama attuale dell’editoria? I grandi gruppi tendono a ristrutturarsi, pare…
Motivi economici. I giornali, tranne qualche rarissima eccezione, non guadagnano. C’è chi sta in piedi grazie al finanziamento pubblico e chi deve fare ristrutturazione o almeno organizzare il portafoglio. Le due grandi operazioni recenti sono la vendita dei giornali del Triveneto, che appartenevano al gruppo Gedi a una cordata che fa capo a Enrico Marchi, imprenditore e finanziare del Nord Est. L’altra sono gli Angelucci che hanno ultimato l’acquisizione de Il Giornale. Ma ci sono altre operazioni sul tappeto. Ma non so se i giornali interessano ancora…
Nemmeno il Corriere della Sera?
Chissà se anche a Cairo potrebbe interessare ancora la Rcs se ci fosse la possibilità di importanti sviluppi sul settore televisivo. Anche le case editrici che stanno in piedi mi sembrano molto “plafonate”. Quando un editore guarda i ritorni sull’investimento è consapevole che per quante cose si possa inventare è difficile migliorare le performance. Poi toccare il costo del lavoro, che sarebbe la cosa più semplice, in pratica è impossibile. Ci sono redazioni con 400 e passa giornalisti, con stipendi mediamente piuttosto alti. Quando per produrre quello che producono basterebbe la metà del personale.
Il mestieraccio del giornalismo. È sempre meglio che lavorare, ma dovendolo fare è meglio usare i dati, la mail, il telefono, o gli incontri di persona?
Non vorrei sembrare anacronistico.
Sia anacronistico, dia un consiglio a chi vuole lavorare in questo campo.
Il fatto di vedere le persone consente di costruire una rete di fonti, quindi di rapporti. Se vuoi fare un giornalismo di notizie, è fondamentale crearti l’agenda. È fondamentale avere un’interlocuzione fisica. Parlare, incontrarsi con le persone, frequentarle. Il giornalismo per alcuni versi è una specie di pesca a strascico.
Lei è diventato un giornalista, ma voleva fare altro all’inizio. È laureato in semiologia e storia del cinema. I suoi autori?
Orson Welles, Carl Theodor Dreyer, Wim Wenders. Aggiungerei Fassbinder. In questi giorni al cinema c’è il documentario di Annekatrin Hendel su di lui, magnifico. E poi Truffaut, per via della biografia sentimental-generazionale. Anche rivisto a distanza di decenni "L'uomo che amava le donne" resta un film sublime, di una scrittura densissima.
Ha iniziato come critico di cinema.
Sono stato tra i fondatori della rivista che è durata 40 anni, Segnocinema. È stata chiusa da poco.
Nei suoi libretti d’opera c’è una tendenza quasi surrealista a corteggiare la fiaba.
Sono fiero di aver fatto anche la trasposizione di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Non è stato ancora rappresentato in Italia. Ed è quello che mi ha divertito di più.
Ma il surrealismo, nella forma del calembour, c’è anche nei titoli di Lettrera43, oggi abbiamo “Lula Hops”, sul presidente brasiliano, e “MinskCulPop” su quella sorta di golpe in Russia.
C’è un elemento biografico che spiega tutto questo. Mi stavo laureando in storia della lingua italiana. A Padova c’era un circolo filologico-linguistico molto reputato: Mengaldo, Folena. Su quello si è abbattuto come un tornado l’arrivo della semiotica, che per me è stato l’arrivo della semiotica cinematografica. Ad un certo punto lo strutturalismo ha preso una direzione cinematografica. In francia Metz, In Italia Betettini, Casetti, lo stesso Eco, Fabbri. Partendo dalla formazione linguistico/letteraria mi sono orientato sull’analisi testuale dei film. Quel tipo di formazione ti rimane sempre addosso. Se cominci a destrutturare la lingua poi te lo porti dietro sempre.
L’arte combinatoria del postmoderno. E come mai è passato a scrivere di finanza?
Stavo all’università, facevo l’assistente volontario, aspettavo questi concorsi per associato che non arrivavano mai. La mia non era una famiglia abbiente: a certo punto mi hanno offerto di scrivere di economia e finanza, su Milano Finanza, appena nato. Poi c’è sempre la nemesi, il concorso è arrivato pochi mesi dopo che mi ero trasferito a Milano. Sliding Doors.
Il racconto del potere e il racconto del teatro. Qual è il legame?
In Italia è più forte che in altri paesi. Pensiamo a quello che accade ora sulla cultura con la destra. Sta facendo di tutto per imporre un immaginario culturale autoctono. Abbiamo un ministro della cultura che si è dato come missione quella di valorizzare esaltare l’aspetto italico-identitario.
Anche legittimo, ma non rischia di essere uno paravento? Per realizzare l’egemonia culturale servono persone nei posti chiave. Competere con grandi player culturali come Franceschini o Veltroni, che hanno creato un sistema strutturato anche in termini di potere non è facile…
Sì, ma io penso che stiano puntando seriamente anche su quello. La sostituzione della presunta egemonia è reale. Che poi riesca o non riesca perché non ha un legame con il potere strutturato è un altro discorso.
Il Pd è in enormi difficoltà ideologiche e di identità, ma è tradizionalmente molto forte in tutti i centri di potere. È ancora così?
Ne abbiamo avuto esempi clamorosi fino a qualche mese fa. Il Pd romano, che è innervato nei gangli del deep state aveva un Direttore Generale del Tesoro, Alessandro Rivera, che era dei suoi, è riuscito a boicottare decisioni prese dal Governo.
Esempio?
La cosa più eclatante è Alitalia: Draghi aveva deciso di vendere Alitalia ai tedeschi e all’imprenditore Gianluigi Aponte. Ma dato che dentro al Pd c’è una corrente filo-francese hanno deciso di boicottare il tutto. Con risultato che adesso si sta lo stesso vendendo a Lufthansa, ma a un terzo del prezzo. Questa persistenza del potere Pd c’è ed è anche forte. E non si supera da un giorno all’altro.
Niente marea nera nel deep state…
Si pensa: “Arriva un nuovo Governo, fa lo spoil system, e cambia tutto”. Non è così. Prima di cambiare gli apparati ci vuole un sacco di tempo, sono sedimentati e soprattutto cercano la sopravvivenza. Il sovrintendente della Scala di Milano non lo decide il Comune, non lo decide il consigliere d’amministrazione, non lo decide il ministero della Cultura, lo decide Banca Intesa. Ci sono dei luoghi del potere economico-finanziario nei quali la destra non riesce a entrare. Nemmeno il milanese Berlusconi riuscì a far sua Banca Intesa, o la Fondazione Cariplo, dove passa il potere economico/culturale italiano. Figuriamoci se ci riesce la Meloni.
Nel recente e fondamentale giro di nomine come è andata alla Meloni?
Non avrebbe mai nominato Paolo Scaroni come presidente di Eni, e Flavio Cattaneo come Amministratore Delegato di Enel. Io sono convinto che, nonostante le turbolenze che sta attraversando, questo governo durerà. Ma se cadrà non sarà per mano dell’opposizione. Cadrà per mano interna: la competitività della Lega, e lo sfaldamento di Forza Italia, che nonostante i patetici tentativi di dire “continueremo in nome degli splendori passati” non staranno in piedi nemmeno con lo sputo. È tutta gente che senza Berlusconi non ha ragion d’essere. La principale minaccia per la Meloni è nel suo stesso Governo.
Su Berlusconi torniamo fra poco. Ma, tra incertezze decisionali, centri di potere forti e sedimentati, influenza europea sempre più cogente. quanto conta un politico italiano, in termini di possibilità di decidere dei (o di incidere sui) destini del Paese?
Il politico italiano ha un potere ridottissimo. Puoi essere anti europeista, sovranista, ecc, ma hai il problema che ogni anno hai una tranche del tuo debito che deve essere comperato, pena il fatto che non paghi gli stipendi della pubblica amministrazione, le scuole si fermano, gli autobus si fermano. Qui vale la legge di Enrico Cuccia.
Qual è la legge di Enrico Cuccia?
“Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto”. Poi ci si mette un attimo a orientare il mood degli investitori. Basta un articolo sul Financial Times, l’agenzia di rating che ti abbassa l’affidabilità. Ci vuole niente per creare una crisi finanziaria, in un paese che è indebitatissimo. Più sei indebitato più potere ha su di te chi il debito te lo finanzia.
Che effetto ha questa situazione sul Governo attuale?
Se osserviamo e ci rendiamo conto che esiste una Meloni uno e una Meloni due, una Meloni di lotta e una di governo. E quella di governo abbraccia il primo ministro olandese Mark Rutte, di cui fino al giorno prima aveva detto le cose peggiori, quella che flirta con Ursula von der Leyen. È quella pro-Ucraina senza se e senza ma. Non lo fa perché ha preso un colpo in testa, lo fa perché lo deve fare. Un paese indebitato è un paese a sovranità limitata.
I Cinquestelle come si sono mossi a livello di poteri?
I Cinquestelle hanno tentato di imporre una loro nomenklatura, Marcello Minenna, da qualche giorno agli arresti domiciliari, fu indicato da loro. È l’emblema del fatto che non ce l’hanno fatta. E potrei fare tanti altri nomi. Quell’apparato è stato spazzato via. Prima Draghi e poi Meloni hanno fatto una sorta di pulizia etnica, ed è rimasto Conte che adesso si è intestato un ruolo antisistema, politicamente abbastanza redditizio. È stato bravo a tenere la barra dritta quando Di Maio ha fatto la scissione. Il Contismo è continuato, il Dimaismo è finito.
Ma è continuato in Qatar, sembra. E Renzi?
È il ragazzo di campagna che arriva in città. Che resta affascinato e capisce che ne può ricavare vantaggi enormi. E Renzi al di là di abilità ed errori politici ha sicuramente perseguito un suo stato di benessere.
Renzi al Riformista. Ottimo segno, per Renzi.
E brutto segno per il giornalismo. Abbiamo criticato Berlusconi per il conflitto di interessi e la commistione tra politica ed editoria, e la fa Renzi, in piccolo. Io penso che se uno fa il senatore non può fare il giornalista. Non per parlar male di Renzi, ma sembra che Il Riformista si stia configurando come una piccola clava con cui massacra alleati, presunti alleati, nemici. Carlo Calenda, Elly Schlein. È un’operazione fuori dalle regole liberali.
A proposito di regole liberali. L’avvenimento storico è la scomparsa di Berlusconi. C’è chi dice che è stato un rivoluzionario, soprattutto per l’immaginario, il pop, e chi sostiene che non abbia compiuto niente di quello che ha promesso. La rivoluzione liberale non c’è stata. E in politica estera è finito dalla parte sbagliata della storia. Che ne pensa?
Io penso che la rivoluzione dell’immaginario collettivo l’ha fatta. Lo ha cambiato.
Forse ha cambiato per prima la sinistra: la rottura degli stili, delle forme, il pop, sono state recepite prima a sinistra, che da subito ha mostrato una strana (e un po’ torbida) fascinazione per lui.
La grande intuizione rivoluzionaria di Berlusconi è stata far riscoprire alla sinistra il Berlusconi che c’era in lei. I suoi oppositori più acerrimi avevano il fanciulletto/diavoletto berlusconiano sopito. E lui lo ha risvegliato.
E magari anche l’olgettina nell’armadio.
Magari. Poi tutto quello che Berlusconi ha fatto politicamente è irrilevante, poco da dire. Un altro punto di debolezza, forse il più grave: non puoi far pagare alla collettività i tuoi vantaggi. La compagna deputata, gli avvocati deputati, L’igienista dentale consigliere regionale. In questo il Cavaliere è stato, francamente, piccolo. Era talmente ricco che non aveva bisogno di farlo. Lei, come contribuente, paga alla finta moglie di Berlusconi 15 mila euro al mese. Questa è una caduta difficile da perdonare.
Si può vedere la storia italiana del '900 come una serie di tentativi di conquista di Roma da parte di Milano. Ci ha provato Mussolini, e c’è riuscito per 20 anni, ci ha provato Craxi, ci ha provato Berlusconi. Nessuno ci riesce mai del tutto. Roma è inespugnabile.
Atavicamente inespugnabile. Non si riuscirebbe minimamente a scalfire. Ma non puoi nemmeno pensare di scalfirla se l’unica cosa che riesci a creare è un partito che non sta in piedi quando tu non ci sei. Il tema vero, oggi non è “sopravviverà Forza Italia”? Ma è, “sopravviveranno le fideiussioni bancarie a nome di Berlusconi che consentivano a Forza Italia di esistere? Gli uomini muoiono, le fideiussioni restano.