Un uomo curvo, bianco d’età più che di talare, spinto in carrozzina tra le navate di San Pietro come un anziano qualsiasi, indossa non la sontuosità ieratica dell’abito pontificio, ma una specie di poncho sudamericano (in realtà probabilmente una sorta di coperta, visto che un poncho avrebbe anche un retro che lì non c’era), floscio e smunto come la periferia morale del nuovo millennio. Chi è? Papa Francesco. La schiena scoperta (che con un poncho non sarebbe stata tale, appunto: si tratta di una coperta appoggiata sopra davanti e tenuta male con una mano da dietro da chi lo conduce per evitare che cada del tutto mentre il pontefice muove il braccio destro, che si scopre a sua volta assieme alla spalla), la maglietta della salute a manica lunga in vista. Niente divisa, nessun segno del potere sacro: attorno a lui solo pellegrini, restauratrici e le ombre dei suoi predecessori marmorei a osservarlo, attoniti e muti, come se la liturgia stessa avesse deciso di ritirarsi in una buca.
Siamo nell’epoca in cui ogni gesto è un manifesto e ogni silenzio una detonazione. E così, il “poncho-gate” – chiamatelo pure così, ché siamo nel secolo del ridicolo elevato a tragedia – è già deflagrato in un pandemonio di commenti, attacchi, interpretazioni. «Qualcuno salvi Bergoglio dallo staff del Vaticano» urla Dagospia: «Non indossava l’abito talare ma un poncho argentino e pantaloni scuri, come un povero Cristo qualunque… È il caso di esporre un 88enne fragile, appena uscito da un ricovero di 40 giorni, a contatto con turisti e bambini, veicolo di germi di ogni tipo?».


Il direttore editoriale di Libero Daniele Capezzone, da parte sua, nella sua rassegna stampa affila la lama con manico di velluto: «Sono uscite le foto del povero Papa, Bergoglio, portato da due signori in cravatta, lui con un poncho buttato addosso, la maglietta della salute in vista, nessun segno di, non voglio dire carismatico, ma nessun segno nemmeno esteriore della condizione di capo della Chiesa e vicario di Cristo. È significativo: che sia stato voluto da lui o voluto da altri, quell'immagine dice molte cose sulla desacralizzazione del nostro tempo, ma fermiamoci prudentemente qui che è meglio». Dice e non dice, ma lancia una bomba sotto il baldacchino berniniano: la desacralizzazione, la fine del teatro sacro, il tramonto di ogni verticalità. Resta da capire se quel non-poncho sia un gesto francescano o un abisso simbolico, un guanto gettato contro il culto o un tentativo di riavvicinare il corpo della Chiesa a quello dei viventi, dei poveri, degli ultimi (teoricamente, l’origine del suo mandato).
Eppure, l’immagine – impietosa, iperrealista, virale dopo il batterico della polmonite – non smette di disturbare. Il Papa, in sedia a rotelle, senza papalina, coperto in maniera disordinata da un tessuto che richiama la tradizione terrena argentina più che quella spirituale vaticana. Un corpo disarmato, il contrario di ogni rappresentazione barocca del potere spirituale. E forse proprio per questo, dice più di mille bolle papali. Più dell’enciclica, del sermone, del saluto urbi et orbi. Perché è il segno che tutto è crollato o che qualcosa, chissà, si sta (finalmente?) riformando (anche se sarebbe ancora tutto da vedere, e toccherebbe anche e soprattutto a chi verrà dopo Bergoglio).
Ma a quale prezzo? Siamo nel tempo in cui un capo religioso globale viene giudicato – e dunque definito – dall’effetto estetico della sua mise. La teologia sostituita dal look, l’escatologia dall’instagrammabilità. In un mondo in cui anche Dio, se mai esistesse e arrivasse tra noi incarnato, sarebbe valutato dalla giacca che indossa a Porta a Porta. E quindi, in questo carnevale dello spirito, il poncho-non poncho del Papa è più importante del contenuto della sua mente e del suo cuore, del respiro dopo l'ospedalizzazione, della mano allungata verso la restauratrice con le appendici fredde.
Maria Antonietta Calabrò su X scrive: «Meno male che è appena scampato a una polmonite bilaterale. E lo portano in giro così!», e suona come la parente ansiosa di un anziano fatto uscire senza sciarpa dalla badante distratta dallo smartphone. L’umanità prende il sopravvento sull'istituzione, il corpo fragile sul corpo mistico. E forse è qui l’ambiguità: Francesco da sempre gioca sul filo del disarmo, del gesto umile, ma cosa resta quando il gesto è ormai privato della forza dirompente dell’eccezione? Quando l’antiretorica diventa essa stessa retorica, e ogni scostamento dal protocollo un nuovo dogma mediatico?

Nel suo resoconto per il Corriere della Sera, Gian Guido Vecchi tenta una narrazione più sobria: «Papa Francesco ha fatto visita, a sorpresa, alla Basilica di San Pietro… poi si è spostato alla tomba di San Pio X… ha salutato due restauratrici e pure alcuni pellegrini…». Ma anche qui il dettaglio del non-poncho-coperta, unito al capo sguarnito, ritorna come una ferita stilistica: «Non portava nemmeno la papalina bianca». Un’assenza che brucia come un’ostia non consacrata, che dice tutto: il vuoto come segno, il non-gesto come detonazione.
E allora eccoci: ci si interroga, ci si accapiglia. È stato lui a volerlo? O lo ha travestito uno stratega con ambizioni da stylist per missionari urbani? È una svista dello staff o un nuovo atto del pontificato che fa dell’impoverimento estetico la sua marciante liturgia?
Il risultato, comunque, è che l’immagine ha creato più clamore di cento discorsi sulla pace o la misericordia. Non ci si scandalizza del dolore, della guerra, della fame, ci si scandalizza di un presunto poncho. Ma forse, in questa reazione, c’è qualcosa di rivelatore: il bisogno disperato di sacro, anche solo come ornamento, anche solo come proiezione simbolica. Un bisogno che la figura del Papa, ridotta a corpo malato in una stoffa informe, non riesce più a colmare.

Il vero problema, insomma, non è l’abito. È ciò che quell’abito scopre: l’assenza di una narrativa forte, condivisa, rituale. In un’epoca dove ogni autorità è dissolta nella liquidità del presente, anche la figura papale ha bisogno di sembrare, se non divina, almeno differente. E invece eccolo lì, con la maglietta della salute, fragile come un bisnonno qualunque. Ora che il sacro sopravvive solo come spettacolo, l’unico vero peccato è non saper più apparire come si deve.
Perché siamo orfani non del divino, ma della sua messinscena. Perché anche chi non crede vuole credere, almeno un poco, almeno in quell’altezza simbolica. Perché anche i laici amano i papi come amano i supereroi: che volino, che risplendano, che ci redimano dal nostro squallore quotidiano, o che quantomeno ci condannino o si mostrino superiori. Perché l’uomo in coperta-spacciata-per-poncho, l’88enne che sbuca a fatica su una sedia a rotelle, ci ricorda che nemmeno i papi sono salvi. Che anche i vicari di Cristo si ammalano, soffrono e se ne vanno.
Il Papa col poncho-non-poncho-ma-coperta è un grumo semantico. È il punto in cui la mistica tocca l’immanenza. È il corpo sfinito che ancora si ostina a esserci, come un segno contrario, come un’eresia visiva. Fa male agli occhi, sì. Ma forse solo perché ci guarda dentro.
Forse il Papa con la coperta-chiamata-poncho siamo noi, ieri, oggi o domani.
E non ci piace guardarci allo specchio.