Il pubblico ministero di Milano, Francesco De Tommasi, aveva affermato più di una volta in Corte d’Assise che le psicologhe del carcere avrebbero manipolato Alessia Pifferi. Questo è emerso quando la difesa, rappresentata dall'avvocato Alessia Pontenani, ha depositato una relazione indicando che la sua assistita avrebbe un quoziente intellettivo equivalente a quello di una bambina di sette anni. In sostanza, dunque, l’accusa rivolta dal procuratore alle psicologhe è quella di aver fatto cambiare versione alla Pifferi sull’accaduto. Un’accusa che, come è emerso nella giornata di ieri, si è trasformata in qualcosa in più. Vale a dire in un’iscrizione nel registro degli indagati. In particolare, i reati contestati alle professioniste di San Vittore sono quelli di favoreggiamento e falso ideologico. Mentre alla legale viene contestato esclusivamente il reato di falso ideologico. Nel dettaglio, si discute della somministrazione di test diagnostici non rilevanti per valutare la salute mentale di Pifferi. In termini concreti, il sospetto è che le psicologhe della casa circondariale di San Vittore abbiano cercato di aggirare l’effettivo stato cognitivo della donna avvalendosi del test di wais. Sulla base del quale, lo ricordiamo, il quoziente intellettivo della donna sarebbe stato valutato nella misura di 40. Un quoziente sovrapponibile a quello di una bambina di sette anni. Non c’è mai fine al peggio. Ma siamo sicuri che, anche laddove quei test siano da considerarsi validi, Alessia Pifferi non fosse in grado di comprendere che poteva uccidere sua figlia? In attesa della perizia psichiatrica disposta super partes dal magistrato ed affidata dallo psichiatra Elvezio Pirfo, ci sono considerazioni imprescindibili.
Anzitutto, il dato per il quale il figlicidio si sia consumato quando Alessia Pifferi era lontana mentre Diana moriva non è sufficiente per renderla meno assassina. Perché l’ha lasciata in condizioni di morire. E lo ha fatto in maniera fortemente egoistica ed egoriferita. Sapendo benissimo quello che stava facendo abbandonando Diana a sé stessa ed alla sua terribile fine. Una fine già scritta. E questo perché quell’abbandono prima è stato un pensiero. Alessia Pifferi ha infatti lasciato in maniera deliberata il biberon a sua figlia. E lo ha fatto ben conscia che due erano le cose indispensabili e necessarie a sopravvivere: mangiare e bere. Diversamente, non sarebbe stato un problema che si sarebbe posta e di conseguenza non lo avrebbe riempito quel biberon. Una donna fin troppo lucida, fredda e calcolatrice. Una donna che non ha corretto il tiro solamente in tribunale davanti ai magistrati, e come sta emergendo anche davanti alle psicologhe del carcere, ma lo ha fatto anche da mamma. Inizialmente aveva negato la sua gravidanza ai vari compagni di turno perché se ne vergognava. Una negazione manifestatasi anche il giorno del parto. Quasi come se fosse un peccato. Con il passare dei mesi, però, aveva poi capito che sua figlia Diana le poteva servire per racimolare qualche soldo. Come quando chiamava le sue amiche parlando del battesimo della piccola. Un battesimo che sapeva che non avrebbe mai organizzato, ma che le sarebbe servito per assecondare le sue velleità più avide. Vacanze, auto di lusso e cene da mille una notte.
Anche ammettendo la validità del test di Weis, dunque, un quoziente intellettivo pari a 40 è sufficiente per sviluppare le strategie di adattamento, che sono quelle necessarie per sopravvivere. Per cui se Alessia avvertiva i suoi bisogni, che purtroppo non erano solamente quelli fisiologici, non poteva non rendersi conto di quelli che erano le necessità di una bambina di 18 mesi: a quell’età si ha necessità di mangiare, di bere, di qualcuno che si prenda cura di noi. Necessità che ha ignorato, lasciandola. in condizioni che avrebbero messo a dura prova un adulto: al caldo torrido milanese di luglio senza acqua e senza cibo. Con l’aggravante dell’età di una bambina di solo diciotto mesi. Quando aveva dovuto fare la valigia per il viaggio d’amore con il compagno Angelo Mario non si era fatta trovare impreparata sul quantitativo di vestiti da portarsi dietro alle Canarie. Denotando anche una piena capacità di comprendere anche l’esigenza di cambiarsi. Considerato il numero di completi e vestiti da sera che si era portata dietro. Non è necessario essere psichiatri per capire che per quel che le interessava non aveva alcun tipo di problema, a maggior ragione sul piano cognitivo. In quel momento storico, si premurava solamente del benessere di una persona: il compagno Angelo Mario. Un compagno che sperava potesse diventare marito. Il resto poteva tranquillamente aspettare. Il suo obiettivo era sposarsi “con il bergamasco”, come lo chiamava negli audio che inviava alle amiche. Niente altro era importante, neppure che sua figlia continuasse a vivere su questa terra. Al di là di come finirà questa triste vicenda giudiziaria, perché le condotte contestate alle psicologhe di San Vittore e persino al nuovo avvocato sono raggelanti, la Pifferi si è rivelata una madre assassina, negligente e per trascuratezza. E ciò perché, come più volte ho avuto modo di sottolineare, i bambini giocano fin dalla tenera età con i bambolotti. Anche prima dei sette anni. Quindi, persino laddove le dottoresse del carcere ed il legale della signora Pifferi venissero scagionate dalle accuse rivolte, rispettivamente per favoreggiamento e falso ideologico, non può negarsi come Alessia Pifferi sapesse che sua figlia, una bambina di diciotto mesi, avesse bisogno di affetto, di essere accudita e sfamata.