Sono tornati da un paio di settimane, “i Fruttero e Lucentini del true crime”. Definizione di Massimo Picozzi, il criminologo e psichiatra dai modi affascinanti che, ancora una volta in coppia con lo scrittore Carlo Lucarelli, è tornato su Audible – società Amazon, tra i maggiori player nella produzione e distribuzione di audio entertainment di qualità (audiolibri, podcast e serie audio) – con il nuovo podcast Nero come il terrore (da cui è stato tratto anche un omonimo libro uscito per i tipi di Solferino), terzo capitolo della serie dedicata a quei crimini della Storia che continuano, per mistero e/o efferatezza, ad appassionare gli ascoltatori. Dopo il successo di Nero come il sangue e Nero come l’anima, venti nuovi episodi da 50 minuti circa, questa volta dedicati al Medioevo. Un viaggio che inizia nel 1485, con tutta l’oscurità che avvolge la figura di Riccardo III di York…
Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi, Nero come il terrore parte da quel Riccardo III meno mostruoso, come aspetto, di quanto la Storia per secoli abbia tramandato. Ci sono ragioni particolari che vi hanno persuaso a scegliere lui come soggetto per iniziare il viaggio?
Lucarelli: Avevamo tantissimi casi da cui cominciare e tutti molto interessanti, non è stato facile scegliere il primo. La storia di Riccardo III riguarda un personaggio conosciuto ma sempre pieno di sorprese, un vero e proprio “giallo” storico.
Picozzi: Semplicemente, Riccardo III non poteva mancare all’interno di una serie che nella sua completezza (si tratta di una quadrilogia) traccia, di fatto, la storia del crimine da Caino e Abele ai giorni nostri.
Nero come il terrore esplora il Medioevo più violento e buio. Un passo nella Storia per dirci che forse, un tempo, andava anche peggio o per suggerire che le mostruosità di oggi hanno radici antiche, talvolta antichissime?
Picozzi: Nel Medioevo un certo tipo di violenza era più “giustificata e giustificabile”. Il livello di alfabetizzazione era basso, bisognava dare l’esempio affinché la gente recepisse i messaggi in modo chiaro e inequivocabile. Penso alle esecuzioni sulla pubblica piazza, agli eretici bruciati ne Il nome della rosa, alla violenza sugli sconfitti. Dopodiché l’uomo è sempre stato anche criminale. In ogni epoca. E le storie, più sono lontane nel tempo, più devono essere intriganti, narrativamente forti, perché se una storia è vecchia, antica, non può contare su quel pathos – figlio del momento in cui un evento accade – che possa sostenerla. La vicenda di Cogne, per intenderci, è molto più debole di quella di Giovanna d’Arco. Come la storia di Gilles De Rais – da compagno d’armi di Giovanna d’Arco a massacratore di bambini – è più interessante di quella di Jeffrey Dahmer.
Lucarelli: Dal Medioevo a oggi sono cambiate molte cose, naturalmente e per fortuna, ma la “qualità” della violenza è rimasta la stessa. Credo siano cambiate soprattutto la percezione della violenza da parte della gente comune e la capacità di limitare gli eccessi del potere. Ma quando perdiamo di vista certi orizzonti torniamo quelli di una volta. La Shoah, la bomba atomica, i massacri legati all’uso terroristico della religione o dei nazionalismi, i genocidi, ci trasformano ancora in uomini medievali. Nel senso negativo del termine, perché, come sappiamo, il Medioevo non è stato affatto soltanto oscurità e violenza.
Quale personaggio vi ha rivelato qualcosa di nuovo o, almeno parzialmente inedito, sull’eterno rapporto fra l’uomo e la violenza?
Picozzi: Beh, la vicenda di papa Formoso mi ha colpito. Un uomo di chiesa che ne ha combinate di ogni. Dopo la sua morte (in vita era già stato scomunicato) papa Stefano VI, nell’897, ordinò di riesumarne la salma. Ebbe quindi luogo il macabro “sinodo del cadavere”, un processo per tradimento, postumo, che vide piombare sul cadavere di Formoso accuse di ogni tipo. Un processo-farsa organizzato nei minimi dettagli. Fecero in modo di farlo addirittura sedere, Formoso, non lo lasciarono sdraiato. Al suo posto rispondeva un diacono. Alla fine, ovviamente, fu condannato, gli furono tagliate le tre dita della mano con cui impartiva le benedizioni, e poi il suo corpo martoriato fu gettato nell’Arno. Quando parliamo di “barbarie” rispetto ad alcuni crimini di oggi, ricordiamoci di Formoso, giusto per fare un esempio fra i tanti possibili.
La figura di una Alice Kyteler (donna irlandese accusata di stregoneria nel XIII ndr) secolo sembrerebbe invece più contemporanea, oggi potrebbe comparire in programmi tipo Donne mortali o Mogli assassine. Una sorta di mantide religiosa…
Lucarelli: Sì. Sono convinto che la gente abbia sempre ucciso per gli stessi motivi, e più o meno negli stessi modi. A parte la quantità della violenza esercitata e il tipo di reazione della società ai crimini, molte storie potrebbero essere le stesse di oggi. Quella di Alice in modo particolare.
Passiamo ai giorni nostri: perché, a distanza di quasi 20 anni dall’omicidio di Mariangela Pezzotta (che diede il via all’intera inchiesta), la vicenda delle Bestie di Satana desta ancora così tanta curiosità? Armando Palmegiani e Fabio Sanvitale, solo due anni fa, uscivano con un nuovo testo sul tema – Bestie di Satana. Storie di omicidi e demoni –, di recente l’intervista di Ale Della Giusta a Mario Maccione, ora libero, ha fatto quasi 800mila visualizzazioni…
Picozzi: Credo che su quel caso (di cui peraltro mi ero occupato da vicino) ci sia stata molta sovrascrittura mediatica. Descrivere le “Bestie” come un gruppo di squallidi cialtroni che hanno commesso degli omicidi sicuramente non avrebbe scatenato tutta la curiosità che, in realtà, ha scatenato. I loro soprannomi demoniaci, il loro satanismo d’accatto, i loro riti scalcinati, il delirio che li ha portati a sostenere che Fabio e Chiara chiesero in prima persona di essere uccisi. Tutto poco attraente. Solo terribilmente tragico. Personalmente i criminali non mi seducono quasi mai. Forse solo Hannibal Lecter (figura ispirata al serial killer Robert Maudsley) ci è andato vicino.
Cosa rende un delitto più interessante di un altro? Anni addietro, a Milano (per mano di due ragazzi di Piacenza) ebbe luogo il cosiddetto “delitto del trolley”, probabilmente uno dei più spaventosi e feroci dell’ultimo secolo, ma la sua rapida soluzione fece sì che se ne parlò poco a livello nazionale…
Picozzi: Una rapida soluzione del caso annulla le potenzialità “gialle” di una vicenda. Il mistero si azzera. I dettagli macabri di una vicenda emergono – per poi appassionare milioni di persone – solo quando attorno c’è un’aura di mistero. Altrimenti la gente tira dritto. Alla gente piace avere la possibilità di schierarsi con nettezza, rispetto a un crimine. Prendiamo l’orribile caso di Alessia Pifferi (che ha lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi): qui il mistero non riguarda l’identità di chi ha commesso il reato, bensì la mente della Pifferi. Il suo caso è un esempio eclatante del nostro bisogno di prendere posizioni forti. Sana o malata? Un’area più grigia non è interessante, sebbene il compito di chi la sta interrogando e incontrando sia proprio quello di determinare quale sia, in questo soggetto, il rapporto fra malattia mentale e lucidità. Pensate anche alle dichiarazioni dei vicini di casa dopo che è accaduto un fatto di sangue. C’è chi dice che “non se lo sarebbe mai aspettato, da una persona così”, e chi invece era “certo che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile”. Uno non sapeva nulla, l’altro tutto. Oppure pensiamo ad alcuni commenti molto frequenti anche sui social: “Uno che fa una cosa simile non è sano di mente”. Che si oppone a “adesso speriamo che non arrivi qualche psichiatra a dirci che questo soggetto è malato di mente”.
Non sempre l’efferatezza di un gesto può compensare la mancanza di mistero che avvolge un caso, eppure il pubblico pare sempre avere un debole per i dettagli macabri.
Lucarelli: Sì, l’efferatezza di un gesto, la sua capacità di spaventare, ha spesso la capacità di calamitare l’attenzione. È il potere del sangue. Poi arriva la parte più importante: la paura, che deriva dall’inspiegabilità del gesto, dal suo uscire fuori, apparentemente all’improvviso, da una metà oscura che non conosciamo. Bello sarebbe che non ci fermassimo lì ma utilizzassimo questa curiosità e questa paura per capire quello che è successo, per cambiare le cose.
Caso Alessandro Impagnatiello, il barman che a Senago ha ucciso la fidanzata, Giulia Tramontano. Un fatto che ha letteralmente sconvolto l’opinione pubblica. Dopo tanti anni di crimini, questo evento ha avuto la forza di colpirvi?
Lucarelli: Assolutamente sì. Alla violenza non ci si abitua mai, e ancora meno a quella che continua a coinvolgere donne e minori. La quantità di storie che fronteggiamo quasi tutti i giorni è sconvolgente. C’è qualcosa che ancora non funziona negli uomini, che ancora dobbiamo capire.
Picozzi: Non mi ha sconvolto né intrigato per le caratteristiche di Impagnatiello. Per me il vero orrore è sempre e solo uccidere, arrivare al punto di uccidere. Il come viene dopo. La ferocia è quella del primo colpo, quello con cui si sceglie di mettere fine alla vita altrui. Un fatto di cronaca nera, abbastanza recente, che mi ha particolarmente scosso è stato quello relativo all’uccisione di Carol Maltesi (in arte Charlotte Angie), la giovane ragazza fatta a pezzi lo scorso anno nel Bresciano. Per settimane, di quella povera ragazza, nessuno ha chiesto nulla. Nessuno si è davvero chiesto che fine avesse fatto.
Le condizioni di salute del true crime oggi. Siamo nel pieno di una nuova evoluzione del genere o si stanno semplicemente raccogliendo i copiosi frutti dopo anni di semine? Perché il genere è ancora così in voga?
Lucarelli: Il true crime gode oggi di ottima salute. Per fortuna e purtroppo, possiamo dire. Per fortuna perché significa che non siamo indifferenti a quello che ci accade attorno, guardare in una direzione è sempre meglio che non guardarci affatto. Voltarsi a guardare all’incidente nella corsia di fianco è naturale, ed è naturale anche “cercare” il morto. Ma se dura un secondo e poi pensiamo “quando arrivo a casa devo far controllare i freni”, allora è una cosa positiva. Se dura di più e ci schiantiamo contro quello davanti che sta facendo lo stesso, invece no. Purtroppo perché significa che certe cose avvengono ancora spesso. Corriamo anche il rischio che diventi troppo facile raccontarle, credendo che basti un po’ di sangue per farci ascoltare col fiato sospeso.
Cosa ne pensate di Dove nessuno guarda - Il caso Elisa Claps, l’ultimo podcast di Pablo Trincia?
Picozzi: Trincia è ottimo, ha avuto il merito di scoperchiare un caso che – più che misterioso – era fitto di errori, anche grossolani, nelle indagini. Per non parlare dei depistaggi.
Lucarelli: Pablo Trincia è bravissimo e mi piace sempre molto. È l’esatto contrario di quel rischio di cui parlavo prima, il rischio di fare le cose troppo facilmente, come se il sangue bastasse a sé stesso. Ci vogliono approfondimenti e verifiche, ma anche passione e partecipazione. E stile. Ecco, Pablo Trincia è così.
Vent’anni insieme, sempre nel segno del crimine. Qual è il vostro segreto?
Picozzi: Abbiamo una voce ben riconoscibile, ripudiamo le divagazioni splatter e ogni volta che scopriamo un caso su cui gettare nuova luce ci entusiasmiamo come bambini alle prese con un nuovo gioco. Siamo riusciti a entrare nel cuore del pubblico. Oggi, in una recente intervista doppia, ha titolato ancora, riferendosi a Carlo, “Paura, eh?!”.