Mi sono presa del tempo per metabolizzare, nell’epoca del “sii primo a condividere” sui social, tutta la bagarre della comunità Lgbtqi+ contro il tag di Netflix sulla serie Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer.
Ryan Murphy, autore di Glee, Nick/Tuck, Scream Queens and so on, dichiaratamente gay, aperto sostenitore (per soldi o per meri fini filantropici) degli underdog, inclusivo ante litteram nelle sue opere ben prima che diventasse un trend, se ne esce in collaborazione con Ian Brennan con una miniserie sul Mostro di Milwaukee, Jeffrey Dahmer, ed è subito polemica.
In primis da parte dei famigliari delle vittime – cosa comprensibile, ma è una condizione necessaria e non sufficiente – che accusano gli autori di aver reso il cannibale un personaggio umano, fin troppo umano, con cui il pubblico crea un legame emotivo; poi da parte della comunità Lgbtqi+ americana, contro la piattaforma Netlflix per l’uso del tag Lgbt.
Non m’interessa vincere delle cause perse e non credo che Ryan Murphy, tra Pose e altri progetti grazie a cui vive una vita degna di Liberace, abbia bisogno di me e men che meno Netflix, che non fa altro che propinare spazzatura (o quasi) dal giorno zero ma… per amor di logica e coerenza Ryan Murphy non deve delle scuse a nessuno e Netflix non doveva rimuovere il tag.
In una delle stagioni di American Crime Story, Ryan Murphy usava come pretesto il caso O.J. Simpson per parlare di come la società bianca e privilegiata si ripulisse la coscienza sui fatti di Rodney King assolvendo, quello che a tutti gli effetti, era ed è un criminale afroamericano: O.J.
In Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, Dahmer è l’escamotage per parlare non solo di uno dei più efferati serial killer della storia (in confronto alla Contessa Bathory Dahmer è un chierichetto) ma di come essere gay e soprattutto maschi non bianchi (asiatici o afroamericani) e, di conseguenza, non privilegiati, rappresentasse un biglietto gratuito per la prigione nel migliore dei casi, nel peggiore essere portati dritti tra le braccia del proprio aguzzino come successe al quattordicenne Konerak Sinthasomphone, caso in cui la polizia non controllò i dati del giovane rispendendolo dal suo "amichetto" alias killer Dhamer.
Nella miniserie, in dieci puntate, tutto questo si vede, vediamo Dahmer usare l’arma dell’omosessualità come lo scudo di Eracle per tenere lontano il naso della polizia dalla sua abitazione, così è stato fino al 22 luglio 1991 con la fuga di Tracy Edwards portando gli agenti Robert Rauth e Rolf Muller a essere meno superficiali e omofobici dei precedenti colleghi.
Dubito fortemente, come detto a inizio articolo, che Ryan Murphy sia un novello Émile Zola, pronto a stracciarsi le vesti in difesa delle minoranze, del giusto ingiustamente accusato, o della comunità Lgbtqia+ di cui fa parte, ma con questa miniserie che è diventata l’evento social delle ultime due settimane (record non da poco considerata la bulimia di quest’epoca on-demand) ha fatto molto di più lui in termini di diritti civili – o almeno portare le persone a interessarsi di queste povere vittime – che qualsiasi edizione del Gay Pride.
La gente prova empatia per Dahmer e non per Ted Bundy (benché fosse anche lui bono) o John Wayne Gacy? Sì. Perché in dieci ore di spettacolo, e alla fine questo è, ci viene mostrato – ma non del tutto – il lato umano di Jeffrey. Murphy poteva giocare sporco o, anzi, giocare pulito e prendere pari pari quel gioiellino di graphic novel che è My Friend Dahmer (scritto dall’ex compagno di scuola Derf Backderf da cui hanno tratto un film), dove si capisce che sì, Jeffrey Dahmer era un mostro, e dovremmo iniziare ad ammettere a noi stessi che i mostri esistono e spesso nascono così senza motivazioni biologiche o sociali a monte, ma che quel mostro non era stato “aiutato” o almeno arginato in tempo perché lasciato sempre solo a sé stesso.
La solitudine, la distrazione, sono mali e colpe gravissime soprattutto in una società iperconnessa com’era già quella americana degli anni ’70, ’80 e ’90. In Dahmer ci si sofferma sulla solitudine dei mostri (quella piena di fantasmi per dirla à la Camus) ma dovuta in larga parte a una famiglia disfunzionale. Invece, Dahmer, era solo anche e soprattutto a scuola, luogo deputato alla formazione dell’individuo e dove si passa buona parte della giornata: usato dai compagni in larga parte per le sue imitazioni, da ragazzo Jeffrey si nascondeva nel retro della scuola a bere per soffocare quei pensieri – necrofilia, cannibalismo, omicidi – che pesavano quanto le future lapidi che aiutò a creare. Dahmer merita empatia rispetto ad altri che non si pentirono mai, benché questo perdono sia giusto non arrivi dai famigliari delle vittime, ma è inutile accusare Dahmer (come un nostrano Pacciani) quando ciò a cui punta Murphy è far emergere, come la merda, le terribili discriminazioni che devono subire le minoranze, e se sono gay con maggiore brutalità da parte del proprio ambiente.
In questi anni di lotta civile armata a colpi di like, reel, Tik Tok e stories, gli attivisti hanno richiesto a colpi di hashtag una parità anche nell’industria culturale. Si sono appropriati dei problemi delle minoranze, minoranze etniche, gay, disabili e via dicendo, chiedendo di essere rappresentati, almeno nei prodotti dell’industria culturale, come esseri umani, né più né meno degli altri. Perché il nero, il gay, il disabile, l’obeso, deve essere rappresentato come l’elemento simpatico e/o positivo nella serialità? Giustissimo. D’altronde Pacciani magro non era, e neanche giovane, e qui qualcuno mi accuserebbe di ageism.
Bene. E allora perché quando Netflix, giustamente, vuole allargare il bacino di pubblico prendendo quanta più utenza possibile classificando, tra le tante cose, la miniserie Dahmer con l’etichetta Lgbt, viene fuori la Guerra dei trent’anni? Chi ha ripristinato il processo di Norimberga?
Se le cosiddette minoranze vogliono essere incluse e non segregate sotto uno status speciale e buonista, a mo’ di unicorni fantastici e leggendari, bisognerà dire che Jeffrey Dahmer era un serial killer ed era gay. Una cosa non esclude l’altra. Così come vedere un serial killer gay (ma poi Milo Yiannopoulos non era omosessuale pure? E Hermann Goering?) uccidere altri della comunità, dimenticati appunto dalla polizia, da Milwaukee e dai media per il loro orientamento sessuale. Il dito è lì che punta, se bisogna nascondersi proprio dietro a un dito. Non sarà che quando si tratta di politica e interesse delle lobby anche le minoranze vogliono dissociarsi da certi rappresentanti scomodi?
Insomma, sono sempre le vittime e pure Dahmer a essere incolpati di qualcosa, l’importante è dissociarsi, dissociarsi sempre, come quei poliziotti che ignorano le chiamate di Glenda Cleveland, ex vicina di casa di Dahmer, e condannata come Cassandra a vedere la tragedia compiersi sotto ai suoi occhi.
Ma è cambiato qualcosa da trent’anni a questa parte? Dal quel 1991 che vide 8 delle 17 vittime sparire senza che la polizia, i media o la società se ne interessasse? Per dirla con Olivier Assayas nel suo pregevole film Après mai (in Italia Qualcosa nell’aria, mamma mia che titoli mettiamo!): cosa è cambiato dopo il sangue versato, le battaglie, le lotte per i diritti civili e per un mondo più sano, giusto ed equo?
Niente.
Assolutamente niente.