Su la testa, dannunziani e futuristi d’Italia, è giunto il momento della riscossa: Giordano Bruno Guerri sta per indossare la feluca di Ministro della Cultura (se Popolare o no, questo si vedrà). Ve lo immaginate, come intellettuale ufficiale di governo, un giornalista che aprì le danze da direttore di testata nazionale – era L’Indipendente, anno 2004 - pubblicando in prima pagina il noto aforisma del poeta americano John Giorno, “Nessun cazzo è duro come la vita”? Ce lo vedete, a presidiare quel campo dei miracoli, irto di mine e tappezzato di carrozzoni che è il Mibact, il già fulmineo assessore – durò quattro settimane, nel 1997 – in quel di Soveria Mannelli, Calabria, previa richiesta che la delega si chiamasse al “Dissolvimento dell’Ovvio”, abbandonandola con la dietetica motivazione di un “eccesso di cene ufficiali”? E soprattutto, mentre la Lega eleva alla presidenza della Camera un cattolico al quadrato come Lorenzo Fontana, non vi manda in solluchero l’idea che contemporaneamente un libertario, anticlericale, ateo e bisessuale dichiarato conduca la politica culturale dell’esecutivo più a destra della storia repubblicana? Orsù, intrepidi e immaginifici cultori del vivere pericolosamente, non è bello, anzi, non è bellissimo tutto ciò?
Come nominare il Joker a capo della polizia di Gotham City. Questo, almeno, secondo la vulgata. In realtà il motivo è più solido, pratico, realista. Ma ve lo sveliamo se arrivate in fondo. Per ora crogioliamoci al pensiero pazzo dei possibili cortocircuiti che sollazzerebbero il gusto per la provocazione delle poche teste davvero matte, in questo nostro Paese oscillante tra caciara scambiata per anticonformismo e conformismo scambiato per democrazia. Ha dichiarato neppure un mese fa l’eventuale ministro, che si autodefinisce “presunto di destra”: “La caratteristica più importante della destra è il libertarismo. Ossia la difesa dell’individuo e delle sue prerogative, della sua unicità e della sua libertà”. Guerri è favorevole all’eutanasia, ai matrimoni gay, all’accoglienza degli immigrati. “E mi vergogno a essere identificato con una schiera di bacchettoni o polverosi reazionari”, ha aggiunto. Tutto un programma, per il futuro programma della Kulturkampf meloniana.
Tradizione? Radici? Identitarismo? Ma va là. Per Guerri ai giovani interessa il futuro, punto e basta. Del resto, da sempre batte e ribatte il chiodo della modernità, lui che, oltre che ex libertino (“A 35 o 40 anni sarei stato un padre sciagiurato. Ora, maturo, ma non posato, sono diventato consapevole. Quasi saggio”, Sette, 17 maggio 2019), è anche liberista. Liberale, liberista, libertario: ricordate, la triade pannelliana? Ecco, siamo lì. Non a caso Guerri in passato fu vicino ai Radicali. Conta molto, nel suo itinerario di scrittore e opinionista, un’aperta e mai rinnegata avversione per l’incenso di sacrestia e le sottane dei preti: è alla Chiesa di Roma, sostiene, che dobbiamo un passato di “educazione penitenziale”, nonchè il “danno enorme” rappresentato da un’Unità raggiunta molto tardi, rispetto a Francia e Gran Bretagna. Opportunismo, furbizia e tutti i viziacci di noi arcitaliani li dobbiamo, in ultima analisi - come già capirono Guicciardini e Machiavelli - al fatto di dover servire più padroni, fra cui l’ingombrante Papa.
Comunicati asettici e interviste di democristiana prudenza? Improbabili, con il Guerri che anche al Giornale firma editoriali da individualista quale è. Almeno non con il Guerri che qualche mese or sono stigmatizzava i malati di politicamente corretto che si formalizzano a dire “gallina” a una donna o “negro” a una persona di colore. E nemmeno con il Guerri che, commentando l’incommentabile stop al corso alla Bicocca di Paolo Nori su Dostoevskij, disse, tombale: “Mi sembra un atteggiamento da idioti ignoranti”. Non parliamo poi dell’omofobia, a destra più o meno strisciante. “La destra che abbiamo in Parlamento – osservava nel 2006 – non è rappresentativa della destra nel Paese, in particolare su temi di natura civile come può essere quello dei Pacs. La destra deve essere prima di tutto in difesa delle libertà individuali. Se la sinistra al governo, però, farà qualcosa, mi auguro proprio riesca a realizzare una buona legge che dia ai conviventi di qualunque sesso i diritti che hanno gli sposati”. Non ha mai fatto mistero della sua passata vita omosessuale, anzi: ne è sempre andato “fiero”. Una volta, sempre sull’Indipendente, dopo che il destrorso old school Domenico Fisichella, allora vicepresidente del Senato, licenziò il proprio segretario perché fotografato al Gay Pride, scrisse che “per scopare bene bisogna essere stati scopati”. “A provocazione si risponde con ceffone”, spiegò con piglio da Marinetti (che però i ceffoni li dava anche non metaforici, prima di finire istituzionalizzato da Accademico d'Italia).
Ma soprattutto, Giordano Guerri è l’addetto al culto civile di Gabriele D’Annunzio. Dal 2008 amministra la Fondazione che gestisce il Vittoriale degli Italiani, e in questa veste si è dato parecchio da fare. Specialmente, come d’altronde è necessario, nel proporre all’immaginario mediatico il prodotto D’Annunzio. La sua è stata un’opera di privatizzazione che ha aperto le sale della casa-museo al cinema e alla tv, cercando di “de-fascistizzare” la nomea del Vate (operazione discussa e molto discutibile, e pur tuttavia logica, se si vuole evitare l’effetto-Predappio, o circoscriversi alle gite liceali). Ecco, giureremmo che la scelta è caduta sul suo nome per questo suo pedigree istituzionale dall'attitudine dicamo pure imprenditoriale, più ancora che per il suo curriculum di storico e biografo di Bottai, Malaparte e Ciano (ma anche, con una qual certa indulgenza per il suo assassino, di santa Maria Goretti). Più per la capacità di rendere la cultura appetibile e per giunta, tramite il D’Annunzio rivenduto come “anarchico” (oddio…), attorno a uno snodo che per la Meloni è cruciale: il limen, il confine fra fascismo, a-fascismo e antifascismo. Se poi il dandy Guerri si manterrà fedele alla lezione del maestro faraonizzato a Gardone, il quale esortava a “conservare intiera la libertà”, tutta quanta, fino all’orlo, “fin nell’ebrezza”, potrà confermarcelo solo lui. A chi scrive, il Guerri che piaceva non è né il fan della modernità, né il liberista e neanche il neo-dannunziano, ma il libertario nel senso letterale, autoironico, sbarazzino del termine: l’“anti-conduttore” che conduceva a piedi scalzi, con la mano dubbiosa sulla pelata, saltellando qua e là senza pace nello studio di quella trasmissione dimenticata, ma indimenticabile, che fu “Italia mia benchè” con la squisita Cinzia Tani, in onda ogni giorno dal lunedì al venerdì a ora di pranzo su Rai Tre, dal 1995 al 1997. Altro che le messe cantate di Corrado Augias, buone per schiacciare un pisolino.
PS: in realtà, cari amanti del genere “épater le bourgeois”, detto altrimenti far casino, ci sa tanto che il vostro uomo doveva essere Vittorio Sgarbi. Ma sembra non sia mai comparso nella Lista degli Indispensabili di Silvio.