Perché alcune guerre diventano “famose” e altre no? Come succede, e perché? Ho appena vinto una borsa di studio per una fondazione in Ucraina, così dovrò recarmi nel paese per documentare alcune cose: la paura è tanta, la curiosità pure, il senso di inadeguatezza totale. Tutto ciò mi ha portato a studiare, prima che nel merito, anche nel (per così dire) “meta-merito”… perché alcune guerre ci riguardano, diventano celebri sui social network, mentre di altre non ci frega quasi niente? Se scorro il feed Instagram la mia “bolla” è tutta una mobilitazione, più o meno inutile e inefficace, per la Palestina. Ora c’è una tregua, forse, e direi fortunatamente… così anche la mia bolla è più calma. Mentre sono su una piccola nave che mi porta a Gozo, dove sto andando proprio per raccogliere dei materiali sull’Ucraina insieme a Sofia con cui devo partire e a cui devo l’invito, compro una copia dell’undici gennaio del The Economist per lavorare alla mia rassegna stampa settimanale: la guerra civile in Sudan, leggo da un articolo particolarmente ben fatto, è ora classificabile come un genocidio da parte del “Rapid Support Forces”… per curiosità chiedo a un po’ di amici, quasi tutti intellettuali, scrittori o operatori dell’arte, cosa sanno della guerra in Sudan… “Niente”, “non ne ho sentito parlare”, “pensavo fosse finita” (La guerra del Sudan del 2023 ha avuto inizio il 15 aprile: contrapposti in modo feroce sono due gruppi del Consiglio di sovranità di transizione: da una parte l'esercito sudanese, dall'altra appunto le Rapid Support Forces).
Potremmo ipotizzare, e questo mi è capitato di sentirlo a una cena a Torino molto “woke” dove infatti io ero guardato come la peste bubbonica, che il problema sia la vicinanza: l’Ucraina è (quasi) in Europa, la Palestina è “a due ore di volo”, mentre il Sudan i miei commensali non sanno manco dove si trovi (in realtà, visto che confina con l’Egitto, non è che sia poi così lontano). Vero? Un po’ comoda come risposta, e ancora una volta come direbbe Wittgenstein questa sarebbe una risposta “che non dice nulla di nuovo”: è la prossimità che genera l’attivismo? Se la risposta fosse sì, ma ci vorrebbe qualche riga in più di quella della mia rubrica, questo impoverirebbe tutte le sfide etiche della mia bolla… femminismo, ecologia, diritti omosessuali, se il problema è che riguardano “noi” o “quasi-noi” (concetto complesso della filosofia politica), allora più che di etica staremmo parlando di “cazzi propri” e non credo questo renderebbe ancora così cool i vari “not in my name” dei miei amici curatori di museo che postano dai loro appartamenti milanesi.
Dunque? La guerra è un fatto come un altro, fa schifo, ma è un evento della parabola umana non meno comune di altri e ancora una volta, la Storia, viene condotta da una qualche forma di “centrismo”. Dell’Ucraina non ci interessa l’Ucraina, ma l’Europa. Così come della Palestina non ci interessa la Palestina, ma una forma complessa di Europa di ordine superiore che nasconde entro sé un antisionismo che sfocia nel vero grande sentimento europeo: il razzismo. Cambia forma, colore, motivazione, ma sempre di razzismo si parla. Perché l’Europa, incredibile ma vero, è sul razzismo che si basa almeno dalla Grecia classica (i Barbari…): e allora, la mia bolla woke, non lo sa ma manifesta con più attenzione per una causa piuttosto che per un’altra perché abbondantemente pilotata dal quel sentimento che ha portato alla formazione del nazionalsocialismo. Stai dicendo che essere filo-palestinese è essere anti-semita? No, non ci penso proprio e chi scrive si è commosso quando è stata dichiarata la tregua. Sto dicendo che essere filo-palestinese a caso, pensando che questa sia l’unica guerra che meriti attenzione e di cui valga la pena sapere qualcosa, spesso senza neanche sapere chi fosse Arafat, consente di ignorare i posti in cui il “genocidio” è già definito come tale per concentrarsi sul fatto che è bello poter dire che chi prima ne era stato vittima ora se ne rende artefice. Come se esercitassimo un diritto al “fanno schifo anche loro” che piace ai moralisti di oggi, futuri senza Stato di domani. La guerra civile in Sudan ha già ucciso centinaia di migliaia di persone innocenti, numeri da brivido se comparati ad altre guerre, e costretto milioni di persone ad abbandonare le proprie case per sempre. Nonostante la si chiami guerra civile è in realtà una "Proxy war" (una guerra per prcura, ndr) voluta da interessi stranieri; gli Emirati Arabi Uniti (UAE) hanno investito miliardi nella guerra in Sudan, in particolare nel sostegno diretto e a tutto campo alle RSF (Rapid Support Forces): la regione costituisce un trampolino di lancio economico verso l’Africa, gli UAE hanno interessi multimiliardari volti a sviluppare porti lungo la costa sudanese del Mar Rosso legati al commercio dell’oro. Nessuno, visto la nostra sudditanza verso gli Emirati Arabi per ragioni economiche, ne parla perché conviene non parlarne: e sono queste guerre che non fanno rumore, dove i senza speranza muoiono a migliaia, quelle per cui ogni tanto sarebbe opportuno spendere una parolina in più.