Game over per la democrazia occidentale: quella, per intenderci, plasmata su valori liberali dove il potere appartiene al popolo e le consultazioni politiche tengono conto delle opinioni della società civile. Vittoria schiacciante, invece, per un nuovo modello di governance: quella che si basa sull'efficienza tecnocratica, che ignora completamente ogni ideologia e che si affida alle grandi industrie tecnologiche. Il discorso d'insediamento di Donald Trump ha decretato il passaggio degli Stati Uniti dalla prima alla seconda forma di governo. Un modello che in realtà – fatto salvo dovute eccezioni non replicabili altrove – abbiamo già imparato a conoscere in Cina, nella Repubblica Popolare Cinese di Xi Jinping, nel Paese del futuro che gestisce la res pubblica con fare deciso, diretto, per niente incline a compromessi che non siano prima approvati dalla leadership in carica. Con la scusa dell'efficienza, dunque, Trump ha intenzione di introdurre nella democrazia occidentale Usa – o quel che ne resta dopo anni di crisi – alcuni aspetti che hanno fatto grande Pechino (aspetti che c'entrano però ben poco con il concetto nostrano di democrazia). Quali? Eccoli di seguito.
Primo: carta bianca, o quasi, alle grandi aziende tecnologiche, le cosiddette big tech, le punte di diamante del capitalismo d'ultima generazione made in Usa, non più basato su lavoro e capitale, ma su dati e network. Su questo fronte il ruolo di Elon Musk, scelto da The Donald per guidare il Department of Government Efficiency (ancora una volta ecco la parola chiave: efficienza), sarà determinante. L'uomo più ricco del mondo intende infatti dominare l'industria automobilistica di nuova generazione con Tesla; superare l'elettrico inviso a Trump in nome della guida autonoma; colonizzare Marte e lo Spazio con i suoi razzi; impiantare, forse, chip nel cervello degli esseri umani con Neuralink e così via. Apple, Google, Microsoft e le altre big tech a Stelle e Strisce sono ovviamente invitate alla festa, insieme a Jeff Bezos e agli altri miliardari nazionali. C'è spazio per tutti, e serve il contributo di tutti in nome dell'interesse nazionale, in una dinamica che intende replicare quanto accade oltre la Muraglia, dove i colossi hi-tech cinesi rispondono ai diktat del governo cinese (in primis per rafforzare il Paese e poi, in un secondo momento, per produrre smartphone, tablet e macchine).
C'è poi il tema della manifattura. Trump vuole che gli Stati Uniti tornino a essere un'importante nazione manifatturiera, per tornare a puntare sull'export e riprendersi quote di mercato globale. E chi è la potenza manifatturiera per eccellenza? Proprio lei, la Cina, diventata la seconda economia del pianeta affidandosi per almeno quattro decenni all'export - di prodotti realizzati in patria - integrato recentemente con uno sviluppo tecnologico estremo. Da questo punto di vista controllare il Canale di Panama consentirebbe a Washington di incrementare il commercio da un oceano all'altro e di andare nella direzione indicata dal suo presidente. Un po' di numeri per capire meglio il contesto: se nel 1928 la produzione industriale americana rappresentava il 45% di quella mondiale, oggi questa è scesa al 16%; in Cina, invece, la stessa quota è salita alle stelle, arrivando adesso a coprire circa il 30% della torta globale. Ultimo punto: il controllo della verità, il concetto di fake news, di narrazione della realtà, ovvero strumenti che Trump intende imbracciare, come Xi, per far passare il proprio messaggio. In sintesi: Donald Trump non non è fascista, comunista e neppure democratico. Donald Trump non è niente di quello che immaginiamo. Il presidente statunitense ama le cose efficienti e, in questo preciso momento storico, la democrazia occidentale è tutto tranne che efficiente. Fate largo, quindi, al nuovo modello di governance trumpiana con tante sfumature made in China. Trump, del resto, ha più volte dichiarato di ammirare Xi Jinping...