Caro Jonathan Bazzi, perché non vieni in Sicilia a raccogliere le arance o nelle serre a raccogliere i pomodorini di Pachino del cazzo? (C’è una bellissima testimonianza, di una donna, che raccoglieva ortaggi nelle serre d’estate e che quando veniva fuori, con 40 gradi, veniva colta dai brividi per il freddo che sentiva). Te lo dico da scrittore, quindi prendi le mie parole con il dovuto rispetto che si deve alla letteratura: hai strarotto questa grandissima coppolazza di minchia odorosa di fieno, avena, cuoio e con un retrogusto di sgombro in scatola della Lidl (è una citazione da Shakespeare, “Pump my flower”) con queste tue lamentele da fighetta (non in quanto sei puppo, ma in quanto sei proprio una fighetta – io come tutti sanno sono molto woke e politically correct) che hai pubblicato su Il Domani, lamentando la tua difficolta residenziale a Milano. Intanto: non credevo che esistessero davvero persone reali che dicessero ancora “abito in un loft”, come se foste rimasti nelle vostre letture provinciali a Jay McInerney negli anni ‘80. Non esistono i “loft”, esistono i magazzini, i garage, i sottotetto, gli ammezzati ma i “loft” no, sono una malattia mentale. Nel tuo articolo vorresti sembrare un intellettuale un po’ bohémienne che abita nel loft con problemi di scarico dopo avere abitato, che ne so, nel mezzanino di fronte al Moulin Rouge. Ma non diciamo cazzate. Questo boboismo (da bourgeos bohemian) lo ostentano soltanto i puppi (in quanto fighette, non in quanto puppi), gli hipster, i social media manager, i creatori di contenuti, i freelance nel campo editoriale e altri scappati di casa.

Perché, se vuoi fare finta di darti un’aria da scrittore, devi saperlo, che l’epoca nostra non è quella della bohème (te piacerebbe) ma è esattamente il 1929 con la sua devastante crisi economica. E sai cosa facevano gli abitanti di New York e della costa est? Se ne andavano sui carri a raccogliere le arance in California (leggiti Steinbeck al posto di atteggiarti a hipster). Quado dici invece che sei nato a Milano (gli affitti, signora mia) e che a Milano vorresti restare mi sono venuti i conati di vomito: come se al mondo gliene fottesse qualcosa dove caz*o sei nato o dove minchia vorresti abitare (è un ragionamento da malattia mentale, te ne rendi conto, con tutta la vanità che puoi avere, non da puppo, ma da fighetta). Anni e anni fa pubblicai un libretto: Manifesto per le città alla fine del mondo. Le città sono finite: sono soltanto i pazzi e le fighette da Instagram che non se ne rendono conto (fammi vedere come metti in fuori la funcia in maniera letteraria, dai). Me ne resi conto una ventina di anni fa, passeggiando per Milano, vedendo il castello sforzesco: a Milano siete tutti schiavi di un padrone, anche i ricchi, anche i designer, gli architetti, i chirurghi e i palazzinari. La città è sempre stata luogo di schiavi e l’imbroglio che vi ha fatto credere di essere una minchia e mezza (o una mezza minchia, come nel caso delle fighette, non dei puppi) era ovviamente destinato a fallire. Vuoi vivere una vita “letteraria”? Trasferisciti in Sicilia, la nuova California di questa Grande Depressione. Altro che lamentele sui coperti al ristoranti (vergogna niente, vero?). Vieni a raccogliere i meloni a novanta gradi sotto il sole (vedrai che i novanta gradi ti piaceranno sempre meno), vieni a fare la spesa alla Lidl, vieni a dormire in tenda, vieni a farti la doccia con il tubo dei pozzi. Altro che: faccio sempre meno aperitivi.
