Agosto 2025. A Washington si incontrano Trump con Putin, poi Trump con Zelensky. I comunicati parlano di dialogo “produttivo”, di garanzie di sicurezza, di possibili tavoli trilaterali. Ma in controluce c’è un’assenza che fa rumore, un silenzio che pesa più delle parole: l’Europa. La guerra che si combatte alle sue porte, che brucia le sue economie e divide le sue società, viene discussa altrove. Il vecchio continente si ritrova ancora una volta spettatore di se stesso, vittima delle decisioni altrui, incapace di sedersi da protagonista al tavolo che ridisegna il suo futuro. La guerra non è piovuta dal cielo nel 2022. È stata preceduta dall’annessione della Crimea, dai conflitti nel Donbass, dalle continue avvisaglie di Mosca. Lì l’Europa avrebbe dovuto svegliarsi, elaborare una strategia comune, ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, presentarsi compatta. Non lo fece. Preferì firmare contratti separati con Gazprom, costruire gasdotti che rafforzavano il ricatto energetico russo, convincersi che il petrolio a buon mercato fosse più importante della sicurezza. L’illusione del “business as usual” si è trasformata in una trappola strategica. Quando poi Putin ha scelto la via dell’invasione e Trump ha cominciato a dialogare direttamente con Mosca, l’Europa è rimasta a guardare. Nonostante il conflitto riguardi in primis lei, per geografia, per vicinanza storica, per conseguenze economiche e sociali, ha accettato il ruolo di comparsa. È stata ammessa come osservatore, mai come arbitro. Il messaggio al mondo è stato devastante: l’Unione Europea non è in grado di decidere il proprio destino.

Sanctions here, sanctions there (sanzioni qui, sanzioni là). Ma lente, frammentate, tardive. Mentre Mosca aveva già un piano pronto, Bruxelles si divideva tra falchi e colombe. Risultato: energia razionata, inflazione a doppia cifra, competitività industriale in caduta libera. Gli Stati membri più esposti, dalla Germania all’Italia, hanno pagato il prezzo più alto. Le famiglie hanno visto salire le bollette, le imprese ridurre gli investimenti, i governi inventarsi bonus e rattoppi. L’economia europea è entrata in una spirale di debolezza da cui non è facile uscire. A questo si è aggiunto il dramma umanitario. Milioni di profughi ucraini hanno trovato riparo in Polonia, Germania, Italia. Un gesto doveroso, certo, ma che ha caricato i sistemi di welfare di un peso ulteriore, esasperando tensioni sociali già presenti. Nei Paesi dell’Est, intanto, cresceva il sospetto che Bruxelles non prendesse sul serio la minaccia russa. Polonia, Baltici e Romania hanno iniziato a guardare più a Washington che a Bruxelles per sentirsi sicuri. Un fallimento politico oltre che strategico. Il futuro non promette meglio. Se la guerra si prolunga, l’Europa continuerà a pagare in sicurezza, in stabilità sociale, in competitività economica. Se invece si raggiunge un cessate il fuoco senza un ruolo europeo al tavolo, saranno altri a scrivere la pace e a ridisegnare i confini della sicurezza continentale. In entrambi i casi, il messaggio è chiaro: l’Europa è un vaso di coccio tra vasi di ferro. Da potenza economica e culla di civiltà, il continente rischia di scivolare in un ruolo subalterno. Non decide, non guida, non protegge. Subisce. E i cittadini lo avvertono: l’Unione Europea sembra oggi più un apparato burocratico disperso tra regolamenti e direttive che una guida capace di affrontare le grandi sfide. Trump tratta con Putin, Zelensky rilancia la sovranità ucraina, i riflettori del mondo sono puntati sugli attori veri della tragedia. E l’Europa? Si limita ad applaudire o a borbottare da bordo campo. Ha perso peso politico, influenza diplomatica, autorevolezza morale. Se i leader europei non trarranno lezione da questo decennio di errori e omissioni, la storia sarà spietata: il continente che fu impero, che fu centro del mondo, sarà ricordato come il grande assente della sua stessa epoca. L’Europa, insomma, rischia di essere non l’autrice ma la vittima della guerra russo-ucraina. E non per colpa altrui, ma per la propria cecità.