Sara Buratin, quarantuno anni, è stata massacrata dal compagno Alberto Pittarello, che di anni ne ha trentanove. Il femminicidio si è consumato a Bovolenta, in provincia di Padova. Lei è stata trovata in un capanno vicino alla casa della madre, dove si era rifugiata da qualche tempo per i dissidi proprio con Pittarello. Al momento dell’uomo non si hanno notizie. Il suo furgone sarebbe stato individuato dai vigili del fuoco nel fiume Bacchiglione, ma per ora non sarebbe stato ancora recuperato. Non si sa, quindi, se l’assassino si sia inabissato con il suo mezzo o se sia in fuga. Quel che è certo è che ha ucciso Sara trafiggendola a colpi di coltello. Dimostrando di aver premeditato tutto nel minimo dettaglio. Incluse le modalità di ritrovamento del furgone. Alberto Pittarello ha teso un agguato alla compagna Sara Buratin. Ha aspettato che uscisse di casa e si è scagliato contro di lei nel capanno degli attrezzi. Le ha teso un vero e proprio agguato con un coltello da escursioni. Concretizzando la sanguinaria volontà di esercitare un ultimo controllo sulla compagna. L’ultimo estremo atto di potere compiuto con una lama da quindici centimetri. Una circostanza confermata dal fatto che Sara Buratin non ha avuto modo di difendersi. Questo perché il suo compagno di vita, ogni ricercato non si sa bene se come morto o in fuga, l’ha pugnalata alle spalle. Proprio come fanno i traditori. In maniera vile, senza neppure avere il coraggio di guardarla in faccia. L’ha uccisa nella maniera più subdola e codarda. Come un codardo si è rivelato ben sapendo di sorprenderla in una condizione di minorata difesa. Per questo la madre della donna che si trovava in casa al momento del femminicidio non ha sentito le urla strazianti della figlia. Non l’ha sentita urlare perché Sara non ha avuto il tempo di farlo.
Si legge sui giornali: la coppia era in crisi. Frasi fuori contesto che veicolano un messaggio fuorviante e che non può fare altro che innescare comportamenti emulativi. Non può passare il messaggio che, se la coppia era in crisi, allora il partner di turno può prendere un coltello e giustiziare la donna sciaguratamente finita sotto le sue grinfie. Sì, giustiziare perché è questo che fanno certe categorie di maschi. Alberto Pittarello ha ucciso Sara perché anziché cercare di capire che cosa non funzionasse nella sua vita le ha attribuito la responsabilità di tutti i suoi fallimenti. Aveva addirittura preso un giorno di ferie per compiere la mattanza. Lucido. Malevolo. Sanguinario, ma debole. Che probabilmente non accettava l’autonomia di Sara e forse la prossima separazione da lei. Ad ogni modo, che lo si cerchi vivo o morto, in fuga o cadavere, emerge una nuova conferma agghiacciante. L’aumento delle pene per contrastare i femminicidi non serve proprio a niente. Questo perché gli uomini come Alberto Pittarello, dopo aver lavato con il sangue il presunto torto subito, si tolgono la vita. Dimostrando di non aver alcun interesse per né per la legge né per chi deve rappresentarla. Sara e Alberto hanno una figlia di quindici anni. Il cui destino, purtroppo, è comunque segnato. La ragazzina a seguito dell’ennesimo femminicidio finisce con l’inserirsi nella categoria dei cosiddetti orfani speciali. Vale a dire i bambini, o poco più che tali, che perdono entrambi i genitori a seguito di un femminicidio-suicidio o per un femminicidio e la contestuale traduzione in carcere del padre. Dunque, poco importa se Pittarello è in fuga o si è tolto la vita. La figlia di Alberto e Sara è comunque un’orfana speciale. Ma Giulia Cecchettin non doveva essere l’ultima? No, e lo sapevamo tutti che non lo sarebbe stata. Perché fare rumore non basta.