Se c’è un’espressione che più di tutte può assurgere a emblema della nostra amata contemporaneità è “restiamo umani”. Personalmente, ogni volta che la sento pronunciare mi corre un brivido lungo la schiena. Ma l’espressione è linguaggio vivo costantemente presente all’interno dei principali organismi di stampa. Basta accendere una qualsiasi televisione per rendersene conto. In ogni salotto televisivo c’è sempre almeno un personaggio che, messo di fronte alle agghiaccianti notizie derivanti da guerre, morti e devastazione, commenta con tono assorto scuotendo il capo e pronunciando le fatidiche parole: “Restiamo umani”. Due parole, non di più. La semplice unione di un “restiamo” (“permaniamo”, “manteniamoci”) e di un “umani”. Tanto basta per mettere tutti d’accordo. “Nel 2022 in Italia ci sono stati quasi 100.000 sbarchi e 2.100 morti in mare”. “Restiamo umani”. “Nel conflitto russo-ucraino hanno già perso la vita 100.000 ucraini e 170.000 russi”. “Sì, ma restiamo umani”. “Sale già a 8.000 il conto dei morti della guerra israelo-palestinese”. “Restiamo umani, per carità!”. L’espressione è utile a delimitare un campo linguistico, a circoscrivere all’interno di un recinto quelli che sono i “buoni” e quegli altri, gli “insensibili”, i “cattivi”, i “senza-cuore”. “Non si può restare indifferenti dinanzi a tutte queste vittime” - si sente spesso ripetere. “Occorre promuovere il dialogo, la diplomazia, la pace”. La parola “umanità” in tali contesti riesce a dotarsi persino della singolare qualità di abbellire subito chi la pronuncia, di renderlo più forte, più autorevole, nei confronti dell’interlocutore. Del resto: come non fidarsi di chi ha tanto a cuore il destino delle vittime, dell’umanità, dei poveri bambini indifesi che quotidianamente lasciano per sempre questa Terra? Come tutte le espressioni molto popolari il detto però cela più di quanto non dica. Ogni volta che lo sentiamo pronunciare, infatti, ci ritroviamo subito di fronte a un paio di inquietanti stranezze. La prima è che, approfondendo il numero di cose verso cui dovremmo conservare la nostra umanità, ci si para davanti una sorpresa: i conflitti attualmente in corso nel mondo sono molti di più di quelli di cui parlano i nostri media più gettonati. Oltre alla guerra israelo-palestinese e al conflitto russo-ucraino possiamo contare, nell’ordine: il conflitto nel Nagorno-Karabakh, lo scontro tra turchi e kurdi, la guerra in Afghanistan, la guerra civile siriana, la guerra in Yemen, il conflitto civile in Libano e quello del Sud Sudan, il conflitto India-Pakistan, l’instabilità politica in Libano, Egitto, Etiopia, il terrorismo in Mali, in Somalia e in Kenya, le dispute territoriali nel Sud della Cina ecc ecc… Di tutti questi conflitti, scontri, situazioni “geopolitiche” intrise di estrema violenza e drammaticità, non mi vergogno di dire che personalmente non ne so assolutamente nulla. Ma sono pronto a scommettere che in tutte queste spiacevoli situazioni sono coinvolti donne, vecchi e bambini che perdono la vita ogni giorno, nel silenzio assordante dell’opinione pubblica occidentale (e non solo).
Certo - mi direte - non tutti questi conflitti stanno mietendo vittime come sta accadendo in Ucraina e a Gaza. Ma a dicembre 2022 le Nazioni Unite contavano per esempio 233.000 vittime nella guerra in Yemen, in corso ormai dal lontano 2014. Qualcuno ne ha mai sentito parlare? È stata mai proiettata sulle reti nazionali la foto di un bambino yemenita rimasto ucciso dopo un conflitto a fuoco? Se sì, quanto spesso, e a che proposito? La domanda sorge dunque spontanea: a cosa è dovuto il nostro “interesse” verso un determinato conflitto? Perché “abbiamo a cuore” i bambini palestinesi, mentre quegli yemeniti (ma, ho il sospetto, anche quegli israeliani) no? Credo che una possibile risposta risieda in un particolare tipo di facoltà che oggi siamo particolarmente propensi ad eleggere a movente principale di qualsiasi nostro pensiero o azione morale: l’empatia. Era il 1917 quando Edith Stein, sulla scorta delle ricerche del suo maestro Husserl, mise l’empatia (in tedesco Einfühlung) al centro della sua ricerca filosofica. Nella sua visione questa facoltà doveva servire a sopperire ai limiti conoscitivi umani. Il sapere infatti è in grado di arrivare all’Oggetto senza possederlo, mentre l’empatia consente di effettuare un’operazione impensabile per la filosofia: afferrare la coscienza estranea. L’empatia in altre parole non era che un modo geniale per provare ad entrare nella coscienza dell’altro dalla porta del sentimento, e non più da quella della ragione. Se infatti, come rimarcò Russell nel suo celebre scritto “I problemi della filosofia”, è del tutto impossibile per l’uomo arrivare a conoscere i pensieri dell’altro l’uomo, per Stein l’unico modo per ottenere una qualche conoscenza dell’altro (ovviamente una conoscenza non discorsiva, non razionale, non linguistica) è empatizzare con lui. Sono passati molti anni, c’è stato un Auschwitz di mezzo (in cui peraltro la stessa Stein morì), e ci siamo dunque ritrovati a dover avere a che fare con un’unica grande verità: se c’è una cosa che l’uomo contemporaneo occidentale deve obbligatoriamente essere in grado di fare è empatizzare con l’altro. Non ci sono scuse. Di fronte all’immagine di un perfetto sconosciuto, o peggio di un bambino, in condizioni di vita precarie, umilianti, al limite della sopravvivenza, ci viene richiesto immediatamente di mettere da parte qualsiasi tipo di ragionamento: quello che dobbiamo fare è empatizzare immediatamente con la vittima, connetterci con lei e da lì poi esprimere il nostro personale giudizio morale. Ma, secondo Paul Bloom per esempio, l’elemento più limitante di questo approccio è che l’empatia funziona come un riflettore da palcoscenico.
È possibile puntarla esattamente nella direzione che si desidera, lasciando totalmente al buio tutto il resto. Ciò apre al secondo elemento inquietante del detto “restiamo umani”: per aderire ad esso è necessario prima empatizzare con la vittima, e quindi visualizzare la vittima come “immagine”. Il problema non risiede dunque tanto nella facoltà empatica (su cui sarebbe comunque assurdo pretendere di fondare una morale, come invece molti oggi sono propensi a fare), quanto nell’origine dell’immagine verso cui empatizzare. Ho il sospetto - ma solo il sospetto, per carità - per esempio che i media nostrani conoscano perfettamente il ruolo dell’immagine nella provocazione di sentimenti empatici nel grande pubblico. Non è un caso se prima di grandi decisioni storiche veniamo messi di fronte a grandi immagini, cioè immagini importanti. Ne sono un esempio le immagini di Fukushima prima del referendum sul nucleare, quelle del lock-down in Cina prima che la medesima misura venisse adottata qui da noi, e ovviamente tutte le immagini di guerra che ci vengono propinate in questi giorni (attualmente, per la cronaca, sono del tutto scomparse dai radar quelle ucraine, mentre per la guerra in Yemen la situazione è più semplice: nessuno ha mai puntato il riflettore su di lei). Questa capacità di mettere-a-disposizione immagini è la medesima coinvolta nel conteggio del numero dei morti derivante da una pandemia o da un conflitto bellico: si tratta in entrambi i casi di quello che Heidegger amava chiamare “pensiero calcolante” (Denken als Rechnen, il “pensiero come calcolo”). Questo tipo di pensiero è il principale responsabile dell’odierna moralità incentrata sull’umano, che sempre Heidegger criticò nella celebre Lettera sull’umanismo. Ogni umanismo secondo lui è sempre frutto di una “metafisica”, ovvero di un pensiero volto a pensare l’uomo a partire dalla sua “animalitas”, e non dalla sua umanità. Paradossalmente, secondo Heidegger il pensiero metafisico quindi è ciò che degrada l’uomo rispetto alla sua originaria dignità, riducendolo a mero “animale razionale” che concepisce ciò che sta intorno a lui solo e soltanto nell’aspetto, nell’idea. L’uomo metafisico di Heidegger è un uomo che si muove per immagini, e che si fa addirittura “guidare” da queste immagini pretendendo di fondare “valori”, nuove “idee” o sentimenti morali. Sarebbe fuorviante assegnare al pensiero calcolante lo stigma di “ingiusto” o di “sbagliato” (questo è frutto di un’interpretazione del tutto faziosa del pensiero di Heidegger), come sarebbe intellettualmente disonesto evidenziare come la filosofia morale di Heidegger sia incline a presentare numerosi problemi, in gran parte proprio dovuti alla problematicità del concetto di “valore” e “dignità umana”. Quello che è certo però è che una morale basata sull’empatia è una morale che non può fare a meno di dipendere in tutto e del tutto da un pensiero capace di produrre immagini, oltre che dalla propensione ad assumere queste immagini messe-in-circolazione da altri come movente delle proprie azioni morali, privando così di qualsiasi ruolo la razionalità, che dovrebbe invece essere sempre centrale nel meccanismo della decisione. È per questo che personalmente sono poco inclino a commuovermi di fronte a delle immagini, di qualsiasi natura essa siano. Penso anzi che la morale pubblica – e più in generale la filosofia – debba ridimensionare l’eccessivo ruolo assegnato nel corso degli anni all’empatia, valorizzando anzi per contro un sentimento solitamente inviso ai più: quello della cattiveria. Per farlo ovviamente è necessario decostruire la sua forzata affiliazione con il concetto di “malignità” e rivalorizzarne l’autentico senso etimologico derivante da captivus, ovvero: colui che imprigionato nelle sue catene è incline a romperle per uscire dalla caverna e scalare la vetta della verità. Sogno una filosofia cattiva, in grado di arginare le pretese degli umanismi rimettendo al centro della morale non più l’immagine, ma la libertà dell'umano.