Evviva gli sposi. Ben Affleck mette la fede alla star portoricana. Chi? Non chiamatela Jennifer Lopez. Nella sua newsletter la ballerina e cantante di recente protagonista del film Marry me (altra parentesi a tema matrimonio di quest’ultimo anno), ha scritto di voler essere chiamata Jennifer Lynn Affleck. Apriti cielo, il femminismo insorge. Si sa, non c’è niente di più patriarcale che la scelta libera di una donna affermata e indipendente. Poi se prende il cognome del marito, caspita, non ne parliamo. Schiava del fallocentrismo occidentale. In effetti Jennifer Lopez, pardon, Mrs. Affleck, ha proprio l’aria di essere sottomessa. Ha anche l’aria di una che non si impegna per i diritti delle donne. Eppure dovrebbe bastare andare su Wikipedia Italia e vedere che ci sono dei paragrafi dedicati proprio al suo attivismo per i diritti umani, per cui ha vinto anche un premio di Amnesty International, grazie alla pellicola Bordertown in cui si denuncia l’assassinio di centinaia di donne a Juàrez. Ma cosa vuoi che sia, mica si lotta così. È assurdo che un’artista usi l’arte per denunciare una condizione moralmente inaccettabile. È una cosa che non si fa, lo sanno tutti. (Per chi non legge tra le righe: sono ironico; basti pensare a Ken Loach, a Pasolini, a Elio Petri e così via). Non si lotta neanche avviando un progetto a favore delle donne imprenditrici, soprattutto quelle latine, come lei ha fatto. Ah, giusto. Perché oltre a essere una showgirl di successo è un’imprenditrice, una donna in carriera nonostante due gemelli. Non ha avuto paura di mostrare il proprio corpo, non si è tirata indietro verso moltissime battaglie, ha avuto storie turbolente gestite in prima persona senza mai voler apparire come una vittima. La tipica donna sottomessa, non ci sono dubbi.
Una di queste relazioni è proprio quella con il suo attuale marito, conosciuto sul set di Amore estremo – Tough Love nel lontano 2003. A distanza di vent’anni torna dalla grande fiamma, o Ben torna da lei. Sta di fatto che sembra tutto fuorché una donna che abbia voglia di mettersi da parte. Secondo la scrittrice Jennifer Weiner, però, il gesto è sconfortante, soprattutto in un momento così complesso per il femminismo americano. Weiner esce con un editoriale sul «New York Times» e parla della pratica di perdere il proprio cognome come di una medievalata funzionale al disegno più generale di sottomissione della donna. Per carità, la “corveture” (la legge inglese che rendeva la donna completamente dipendente dalla figura del marito) fa parte del retaggio patriarcale con cui la nostra società ancora non è disposta seriamente a fare i conti. Ma la storia dovrebbe essere un filtro sufficientemente acuto da permetterci di distinguere ciò per cui valga combattere e ciò che ha perso completamente il suo significato originale. Guardiamo la realtà dei fatti. Angela Merkel, ricorda l’articolo di «Rainews» a cui abbiamo rimandato all’inizio del primo paragrafo, ha tenuto il nome del primo marito. Lo stesso vale per la Lady di ferro, Margaret Thatcher, nata Roberts. Non proprio due donne sottomesse. Quindi tutta questa polemica ha davvero senso, nel 2022?
Per fortuna, sempre sul «New York Times», altre donne difendono la scelta di Jennifer Affleck. Tra tutte, Vanessa Friedman ricorda qualcosa di simile a quanto già detto: oggi, a differenza che in passato, si tratta di una scelta presa autonomamente. Sorge dunque la domanda: ma le femministe, qualche volte, non rischiano forse di confondere la lotta per l’indipendenza e la libertà della donna con la lotta per imporre una libertà determinata, politically correct, eterogestita? Ovvero una libertà mia le cui caratteristiche le stabilisce un altro? Suona come una fede. Con la differenza che la dantesca “maggior forza e miglior natura” stavolta non è Dio, ma un gruppo di attiviste politicamente orientate diventato vox populi, o almeno ambasciatore del gentil sesso.
La società de* moralist* cresce e si fa forte. Peccato che, come un alluvione, si porti dietro anche battaglie sensate e imprescindibili, come il diritto all’aborto. Un tutt’uno che ci fa pensare che la scelta di un cognome possa davvero influire sulla situazione del femminismo, come scrive Weiner. No, non sto facendo mansplaining (neologismo usato per indicare la tendenza di un uomo a voler dare consigli a una donna). Al contrario, sto chiedendo alle femministe di lasciar libera una donna di fare le sue scelte, cioè di non fare loro stesse mansplaining. Non parlo neanche dagli spalti. Anzi, colgo l’occasione per ricordare che anche gli uomini possono essere femministi, perché essere femminista ed essere femmina non sono condizioni che coincidono (così come essere antirazzista e nero). Ma c’è modo e modo di combattere per la parità tra i generi. Attaccarsi ai cognomi, o alle desinenze, non sembra la mossa più intelligente del mondo e, soprattutto, moltiplica i problemi, confondendo quelli reali con questi fittizi. Ma il dibattito è destinato a continuare. Intanto io faccio gli auguri ai novelli sposi, augurando a Jennifer Affleck che questa storia possa avere più fortuna dei Batman del dolce maritino, con il cognome che più le piace.