Non passerà certo alla storia della letteratura come romanziere rivelazione, ma altrettanto certo è che Andrea Contin, il 54enne ex “don” di San Lazzaro a Padova spretato nel 2017 dopo lo scandalo sulla sua sfrenata vita sessuale, di possibili rivelazioni ha inzeppato l’opera appena uscita a sua firma, che porta il titolo, un po’ scontato, “Mia madre era una ragazza. Morte di un ex prete a luci rosse”. La trama gioca tra finzione e realtà, inscenando il giallo del cadavere di un sacerdote di fantasia, don Luca Canterletti, ridotto come l’autore allo stato laicale dopo anni passati nel vizio e nella lussuria. Rovistando fra le sue cose, i fratelli del morto trovano una serie di appunti, sei piccoli libri e una decina di lettere, e da lì inizia un itinerario nella doppia vita che avvolse nell’ipocrisia anche quella di Andrea Contin fra il 2016 e il 2018, quando patteggiò un anno di carcere per lesioni e violenze, ritirandosi poi a vita privata e mettendosi a scrivere il libro-confessione di cui forniamo qui degli stralci.
Il 16 dicembre 2016 i carabinieri ritrovarono nella canonica della parrocchia di Contin un caravanserraglio di oggettistica per tutti i gusti: falli, frustini, manette, stivali e una montagna di porno amatoriali. Nel romanzo, quasi due intere pagine sono dedicate al dettagliato elenco di “cose hard” stilato nel verbale di perquisizione a carico del protagonista. Fior da fiore: “una tuta di pelle nera marca ‘Heaven Modello Stella’, uno paio di decolté in camoscio nere con tacco a spillo da 18 cm, un vhs dicitura Lo sporco Eden, perizoma di pizzo rosso, collare borchiato in pelle di colore nero con guinzaglio per cani di grossa taglia, due dildo in gomma con serbatoio di colore nero, stimolatore per parti intime, a batteria….”. Eccetera. In pratica, un set da filmetto erotico manieristico, per chi ha un immaginario fermo alle cassette e riviste dell’era pre-internet. Pare che Contin si fosse accompagnato a parecchie donne, addirittura venticinque. Solo una lo accusò andando in procura. Il suo corrispettivo d’invenzione, don Luca, fa ingelosire una delle amanti, che durante l’interrogatorio spiffera aneddoti appresi in confidenza non proprio edificanti non soltanto per lui, ma anche per altri: “Ho raccontato tutto quello che mi avevi detto. Che in Brasile anni fa un prete ed un Vescovo violentarono una ragazzina durante una festa nella parrocchia di Santo Osvaldo, che lei rimase incinta e che da allora le inviano un assegno mensile; che un alto prelato della Curia ricicla denaro sporco in Congo; che un ‘pio’ parroco… aveva sversato dietro la canonica un’intera cisterna di gasolio inquinando un’area enorme; che un prete portava cellulari in carcere in cambio di favori sessuali e coca; che la moglie di un ufficiale dei carabinieri, noto come ‘Rambo’, dei reparti speciali, era stata trovata dai bambini nei bagni di una scuola elementare mentre… eseguiva a regola d’arte, questo l’avevi detto tu, un rapporto orale, tu non avevi proprio usato queste parole, ad un maestro. E che una volta all’anno, in questi ultimi tre anni, organizzavi a casa tua una serata video… dove facevi vedere le performances sessuali di alcune signore, tue conoscenti, a persone che invitavi per una festa…”. Ogni riferimento a persone o cose, premette l’autore, è “tutto sommato casuale” (sic).
C’è poi una lettera di una delle pupille di don Luca che spiega come incontrò “il diavolo in persona”: afflitta da un pesante fardello di problemi familiari (separazione, un figlio disturbato, una figlia scappata di casa con un tossico), prostrata e abbandonata, finisce a cena con il parroco “in un ambiente esclusivo immerso nel verde” e, fra un calice di rosso e un po’ di musica romantica, ci finisce pure a letto. Gli “piaceva usare violenza, molta, ed io passivamente mi sottomettevo, come caduta in una specie di trance. Non capivo e non volevo, ma accettavo spinta da uno spirito di umiltà e da un desiderio profondo di redenzione: schiaffi, sputi, costrizioni di vario tipo, morsi, umiliazioni, usava anche la cera nelle mie parti intime, mi faceva sanguinare copiosamente con dei vibratori e chiedeva rapporti orali e anali senza esserne mai sazio”. Risparmiamo al lettore solo per brevità la sequela alquanto tediosa di ulteriori dettagli, che paiono usciti paro paro da un qualunque porno reperibile online. Bisogna sottolineare, tuttavia, che Contin-Canterletti giura di non essere mai stato violento né di aver costretto chicchessia, facendo sesso esclusivamente con donne adulte e consenzienti.
“Io so di aver sbagliato. E tanto. Lo so. So dove ho sbagliato, ma non chiederò mai più a qualcuno di essere perdonato. A qualcuno che… non stimo. A qualche altro do appuntamento con grandissima serenità davanti a qualche altro tribunale. Un po’ più in alto”. Così il don della romanzesca vicenda, in questo caso presumibilmente combaciante con il pentito, ma non rassegnato, Andrea Contin. Il quale, parco di interviste, utilizza la forma romanzata per auto-intervistarsi e così sfogarsi, svelando le origini psicologiche della sua fissa per il sesso. La parrocchia, scrive, “richiedeva un lavoro continuo di mediazione… Il continuo sforzo di tentare di armonizzare i conflitti, la quotidiana gestione di una realtà assai impegnativa, il desiderio di proporre numerose iniziative pastorali sempre all’altezza… tutto questo dentro di me accumulò uno stress… che a sua volta ingigantiva un senso di malessere e di solitudine... insopportabili”. Se a ciò si aggiungono le “oggettive difficoltà nella gestione della sessualità” e, ancor più, “la fatica di cercare di apparire sempre sereno e tranquillo”, il “dover fingere di essere felice”, ecco che si arriva alla tempesta perfetta: “caddi in un loop micidiale”, di una “disarmonia… affascinante… Forse ho esagerato. Senza forse”. È la sensazione di disordine interiore, “il desiderio di perdizione”, di “càhos” (scritto, chissà perché, così) che trascina in basso e nel contempo ammalia e strega il prete, che non sente “alcuna colpa dal punto di vista penale”, ma solo morale. E che non si sente il solo, ad essere traviato: “propongo vengano scelti, ad estrazione, quattro religiosi: un parroco, uno della curia, un professore del seminario ed una suora e ci sottoponiamo a spese mie a una valutazione psichica. Vediamo…”.
“Don Mona” (titolo di un immaginario libro propostogli nella fiction letterarieggiante) descrive poi il colloquio con i giudici del tribunale ecclesiastico, capeggiato da “don basilisco”. Secondo la tradizione, il basilisco è un rettile che tramortisce con lo sguardo e con l’alito, e simbolicamente rappresenta il peccato della carne, non alieno ai “curiali” (che nel Rinascimento erano, ricorda perfido, “le cortigiane”). La polemica anti-clericale è servita. Ma lui non solo è praticante, è anche studioso del “senso di finito e di s-finito che lascia nell'anima l'orgasmo”. Si chiede infatti: “Cosa vogliono dirci gli orgasmi?”. Eh, saperlo. Nel frattempo, si applica metodicamente a esplorarne il raggio d’azione: a casa, nel “Prato erotico”, allestendo un “club privè outdoor” dotato di maxi-schermo dove far scorrere scene di gang bang e festini assortiti, il tutto al profumo di orchidee, genziane e fiori di loto; nel bosco, a caccia di partner casuali con cui innescare una girandola di accoppiamenti; al distributore di benzina in tangenziale, per appagare la voglia di vedere l’amante di turno recitare la parte di battona di strada; nello scambismo; nella dinamica padrone-schiava; nei villaggi nudisti dove aspettare nottetempo, nudo sul letto, la propria bella di giorno in compagnia di tizi rimorchiati alla bisogna. Il campionario è coronato da un vademecum in sedici punti, seriorissimo, scientifico, su “come organizzare l’orgia perfetta”: “minimo quattro persone”, altrimenti è “threesome”, e attenzione, non manchino “vino e succhi di frutta, appetizers e frutta fresca, mignon dolci e salati”. Anche la gola, pardon il palato, ha le sue esigenze. Peccare è necessario (“abbiamo bisogno del peccato… per far andare avanti la storia!”). Che almeno si pecchi con tutti i crismi.
Prima della morte (non spoileriamo la causa), le traversie pecorecce nell’immaginazione del libro si concludono con il nostro assatanato pretino che compensa la ritrovata castità con il piacere del cibo e della cucina, che è “regola, misura, numeri, pesi, pulizia, ordine, persino rigore”. Da lussurioso a ghiottone, il passo è breve. Ma, anche qui, all’insegna dell’eccesso orgiastico: “cinquantasette ricette che mi salvarono la vita”, rimarca con ebbra soddisfazione enumerandole una per una. La chiave del gialletto - che una volta sarebbe stato venduto al massimo nelle edicole, sezione erotici - sta in copertina: la madre del titolo era una ragazza-madre, e lui, come si diceva un tempo, il figlio della colpa, il “frutto del peccato”. Ne è uscito un uomo “diviso in due”, “scisso”, “deviato”, “depravato”, ossessionato dalla ricerca del “giorno giusto per morire”, adoratore del celebre quadro “L’origine del mondo” di Gustave Courbet (soggetto di una lunga, paganeggiante digressione contro la morale “spugna putrida”), lettore del lascivo Catullo ma anche di Alda Merini, citata per l’icastico verso “Eravamo troppo felici per credere in Dio” - che è tutto un programma. L’immorale della favola, se si vuole individuarne una, è che Contin abbia inteso narrare uno spaccato di realtà più comune di quel che si pensi (al netto della foia compulsiva e della violenza, sempre e comunque ignobile). Perché in fondo queste gesta da porno-attori, nel loro essere dozzinali, adolescenziali, già mille volte sentite, non fanno che confermare quanto la perversione sia un concetto relativo. Solo, ci si domanda come abbia potuto metterci cinque anni, cinque!, per comporre un polpettone da cinque ore di defatigante lettura. È proprio vero che il sesso è meglio farlo, che raccontarlo.