Voleva ricavarne 38 milioni di euro, se lo comprerà per molto meno. È una storia di atteggiamenti contrastanti quella fra l’imprenditore campano Danilo Iervolino e il settimanale l’Espresso. Stando alle voci ormai accertate Iervolino sarebbe prossimo a acquistare dal Gruppo Gedi lo storico settimanale italiano. Ma appena tre mesi fa, dicembre 2021, l’imprenditore si è visto rigettare dall’ottava sezione civile del Tribunale di Napoli una clamorosa richiesta di risarcimento danni contro la medesima testata e un giornalista che all’epoca era suo collaboratore, Nello Trocchia (nel frattempo passato a lavorare per il quotidiano Domani). Ben 38 milioni di euro, appunto, per articoli ritenuti diffamatori a proposito dell’Università telematica Pegaso di cui Iervolino è stato proprietario fino a pochi mesi fa. Una causa, peraltro, sottoscritta anche dalle 137 persone che all’epoca (era il 2018) si trovavano in forza a Pegaso, fra corpo docente e personale amministrativo. A significare che la diffamazione dovesse ritenersi portata non soltanto verso l’istituto universitario e la sua proprietà, ma anche verso ogni singolo dipendente. Viste le dimensioni del procedimento e della richiesta risarcitoria, la mossa è stata indicata come un esempio da manuale di Slapp (acronimo ce sta per Strategic Lawsuit Against Public Participation), le cosiddette querele-bavaglio il cui principale intento sarebbe quello di intimidire giornalisti e testate. Sia come sia, quella mossa giudiziaria si è risolta in nulla. E a questo punto resta in piedi un dubbio: quando la mossa giudiziaria procedeva verso il nulla di fatto ma era ancora in piedi, l’imprenditore Iervolino Danilo stava già trattando con Gedi l’acquisizione della testata cui chiedeva un risarcimento da 38 milioni di euro?
Grottesco, anzi no – La nota grottesca da cui siamo partiti serve a introdurre la riflessione sulla vicenda, ma non certo a esaurirla. Perché sono molti altri gli aspetti cruciali da tenere in conto per parlare dell’ormai certo passaggio di proprietà dell’Espresso. Messo in vendita da Gedi come si trattasse di un asset qualsiasi. Ciò che deve indurre qualche valutazione sullo stato di salute dell’informazione in Italia, sul suo ruolo sociale e soprattutto sul suo rapporto col mercato. E si tratta di una riflessione che necessita di partire sgombrando il campo da posizioni ottocentesche riguardo proprio al rapporto fra informazione e mercato. I giornali, e in generale tutte le testate informative, sono anche (soprattutto?) aziende editoriali che col mercato devono confrontarsi. E tocca farlo dentro una dimensione di concorrenza sempre più spietata, costituita com’è da una non sempre riuscita integrazione fra testate di estrazione tradizionale e testate figlie della rivoluzione digitale. Dentro questo orizzonte succede dunque che anche un giornale capace nel corso dei decenni di essere un’eccellenza venga dismesso come un oggetto ormai costoso. E senza nemmeno curarsi di quale possa esserne l’uso da parte della nuova proprietà. Che, dal canto suo, magari la rilancerà anche e le permetterà di vivere una stagione innovativa. Ma non è questo il punto. Il punto è che la vicenda dell’Espresso diventa emblematica. Non è più sufficiente essere una testata storica, né continuare a garantire un elevato standard di qualità informativa e di approfondimento investigativo. Bisogna proprio essere delle aziende che stanno in piedi in termini di economicità. Lo status da “fiore all’occhiello” non interessa più. O quantomeno, non interessa ai soggetti maggiormente established del capitalismo italiano. Può interessare invece ai soggetti in ascesa, o che ritengono di esserlo. E perciò sono pronti a costruirsi un portafoglio di asset capaci di bucare sul piano comunicativo prima che imprenditoriale. Per esempio, comprare all’asta e in extremis una società di calcio di Serie A con squadra fortemente candidata alla retrocessione. O costruirsi un piccolo impero editoriale cui aggiungere un pezzo di altissimo pregio come l’Espresso, che permetta di incrementare la legittimazione personale e di approssimarsi al salotto buono della finanza nazionale. Mister Iervolino, I suppose.