Aveva l’aspetto di un impiegato qualsiasi, Donato Bilancia. Camicia ben stirata, modi cortesi, un volto anonimo che si perdeva nella folla. Eppure, dietro quella facciata, si celava uno dei più spietati serial killer della storia criminale italiana. Nato a Potenza nel 1951 e cresciuto a Genova, Bilancia era un uomo divorato da rancori, ossessioni e frustrazioni. Una vita segnata da lutti (la morte del fratello gemello annegato), complessi di inferiorità e da un rapporto distorto con il denaro e il gioco d’azzardo, che finirà per divenire la sua seconda malattia. Per anni ha frequentato bische, casinò, circoli riservati. Dentro di sé coltivava un’idea di vendetta, una rabbia cieca che esploderà all’improvviso tra l’autunno del 1997 e la primavera del 1998, in una scia di sangue che seminerà il terrore tra Liguria, Piemonte e Lombardia. Nulla sembrava accomunare le sue vittime: uomini e donne, giovani e anziani, prostitute, passanti casuali. Eppure, a guidarlo era un disegno perverso e delirante, figlio di un narcisismo criminale e di un bisogno compulsivo di controllo. Odiava chi lo faceva sentire impotente, e uccideva per ristabilire il suo dominio sul mondo. Una figura ambigua e sfuggente, lontana sia dallo stereotipo del serial killer da manuale sia dal pluriomicida mosso da un solo movente. Proprio a questa complessità è dedicato l’ultimo appuntamento con Il Caso, il programma di Stefano Nazzi in onda mercoledì 6 agosto in prima serata su Rai 3. Al centro della puntata, la vicenda di Donato Bilancia sarà approfondita con l’aiuto del criminalista Luca Chianelli, del pubblico ministero Enrico Zucca, della criminologa Flaminia Bolzan e dello scrittore Giacomo Papi.

L’orrore di un assassino seriale
Il primo delitto risale all’ottobre del 1997: Bilancia uccide un conoscente per vendetta legata a un presunto imbroglio al gioco. Da lì in poi, la furia si scatena: diciassette omicidi in soli sette mesi. La stampa comincia a chiamarlo “il killer dei treni”, perché alcune delle sue vittime vengono trovate morte nei vagoni ferroviari, uccise con un colpo alla testa, senza movente apparente. Ma il suo raggio d’azione è più ampio e disturbante. Ammazza tre prostitute, alcune con un rituale preciso: spogliate, derubate, lasciate nude in strada. Uccide un benzinaio, una guardia giurata, due coniugi sorpresi nella loro villa. Spara a una cassiera in un pedaggio autostradale solo per l’ossessione di avere ricevuto il resto sbagliato. Gli inquirenti brancolano nel buio per mesi: i delitti sono troppo diversi, non sembrano seguire un pattern classico. Solo dopo l’ennesimo omicidio – quello di una donna in un bagno di un treno tra Genova e La Spezia – la polizia capisce che c’è un’unica mano dietro tutto. L’arresto arriva nell’aprile 1998 grazie a un’impronta digitale e al lavoro incrociato tra le procure. Donato Bilancia confessa tutto con freddezza, nei minimi dettagli, senza rimorsi. Davanti ai magistrati si giustifica con ragioni economiche, rancori personali, perfino con superstizioni. Ma dietro la sua logica c’è solo il vuoto: un uomo che ha fatto del delitto un modo per esistere.

Ergastolo, redenzione e morte
Condannato a tredici ergastoli e a oltre venti anni di reclusione, Donato Bilancia viene rinchiuso nel carcere di Padova, dove passerà il resto della sua vita. Lontano dalla cronaca e dai riflettori, inizia un percorso apparentemente opposto rispetto alla brutalità del passato: studia, legge, scrive lettere, collabora con alcune attività carcerarie. Racconta di aver scoperto la fede, di aver capito il male compiuto. Una trasformazione che lascia dubbiosi molti esperti: sincera conversione o solo strategia di sopravvivenza? Chiede più volte la revisione del suo regime detentivo, ma le istanze vengono sempre rigettate. Alcuni psichiatri lo definiscono lucido, perfettamente capace di intendere e volere; altri intravedono in lui una psicosi latente, un narcisismo patologico che non l’ha mai abbandonato. Muore il 17 dicembre 2020 all’età di 69 anni, stroncato dal Covid-19. Nessun familiare reclama il suo corpo. Nessuna cerimonia pubblica. Nessuna memoria condivisa. Solo l’eco lontano di un nome che ha segnato un’epoca buia della cronaca nera italiana. Stasera Il Caso di Stefano Nazzi su Rai 3 riapre quella ferita: perché certe storie non si possono chiudere, se non guardandole dritte negli occhi.
