A partire da settembre, Spotify alzerà i prezzi dei propri abbonamenti in numerosi paesi, Italia inclusa. Il servizio? Ovviamente sempre lo stesso. La piattaforma di streaming musicale più popolare al mondo ha annunciato un rincaro generalizzato che interesserà tutte le formule di sottoscrizione: l’abbonamento individuale salirà a 11,99 euro al mese (contro i precedenti 10,99), quello riservato agli studenti passerà da 5,99 a 6,49 euro, l’opzione Duo costerà 16,99 euro (invece di 14,99), mentre il piano Family toccherà quota 20,99 euro, rispetto ai 17,99 attuali. Gli utenti già abbonati riceveranno una comunicazione via email con i dettagli delle modifiche nel corso del prossimo mese, ma chi si iscrive da oggi troverà già attive le nuove tariffe. Questa mossa rientra in una più ampia strategia della compagnia svedese per aumentare la redditività della piattaforma, da tempo considerata sotto le aspettative in termini di profitti nonostante l'enorme, mondiale, base di utenti. Negli ultimi mesi, Spotify ha puntato a diversificare l’offerta, introducendo audiolibri, contenuti video e funzionalità potenziate grazie all’intelligenza artificiale, soprattutto nella creazione e gestione delle playlist. Con l’aumento dei prezzi, la piattaforma spera ora di capitalizzare su questi investimenti, consolidando la propria posizione sul mercato anche sul fronte economico. Dal punto di vista dell'azienda non fa una piega, ma gli utenti fino a che punto sono disposti a farsi suonare le chiappe?

Prendiamo come esempio l'abbonamento individuale. 11,99 euro, con quell’ormai dannato centesimo mancante che ha il sapore di una ciliegina sulla torta della presa per il culo. 143,88 euro all'anno, contro i vecchi 131,88. Tanto, per fare un'analisi breve ma incisiva, il punto di forza del capitalismo moderno è proprio la debolezza del cliente, sempre pronto a pagare e sorridere, senza incazzarsi mai di fronte ai rincari. Anzi, c'è poi anche chi raggiunge il livello di aberrazione totale, lo si vede parlando e leggendo i commenti sui social, ed è pronto a difendere a oltranza il rincaro, assumendo così le difese di chi lo sta inchiappettando. Una parafilia che andrebbe studiata e inserita nel Dsm, il manuale di riferimento dei disturbi psicologici, qualcosa a metà tra la sindrome di Stoccolma e il sadomasochismo, al grido di “È giusto pagare di più per avere sempre lo stesso servizio che già al prezzo precedente non valeva i soldi che pagavo”. Allora, come il titolo di quel libercolo di Lenin: che fare?

Qualcuno si è di fatto ribellato a Spotify, ma non per gli aumenti, e non gli utenti. Più che altro gli artisti, pochissimi, quando saltò fuori che Daniel Ek, il Ceo di Spotify, aveva investito 600 milioni di euro in Helsing, una startup che unisce tecnologia militare e intelligenza artificiale. Qualcosa come 50 milioni di abbonamenti individuali mensili, al nuovo prezzo. Dati aggiornati al secondo trimestre dell'anno in corso, Spotify ha all'attivo ben 276 milioni di utenti abbonati, ed è facile calcolare che la cifra monstre finita in armamentari l'ha guadagnata in nemmeno un mese, e ancora gliene sono avanzati. Qualche band è uscita, qualcun'altro ha protestato con le mani legate, come Piero Pelù che ha dichiarato “Avrei ritirato immediatamente tutti i miei dischi da quella fottuta piattaforma, ma purtroppo i master non mi appartengono più”. Poi c'è anche la questione, sempre dal punto di vista degli artisti, dei guadagni. Un musicista, da Spotify, incassa all'incirca tra i 3 e i 5 dollari ogni 1000 stream. Ovvero, noccioline. Questo significa, in parole povere, che la più grande app di consumo musicale in realtà svaluta la musica stessa, portando a contenuti sempre più appiattiti e fungibili, e sempre meno dotati di valore artistico o sperimentale. Però gli artisti spiegano anche che, per loro, si tratta sempre di un introito che è difficile abbandonare, soprattutto se non si riesce a coprire in altre maniere. La soluzione dovrebbe quindi arrivare dagli utenti, ma quale sarebbe? Accontentarsi del piano free, finché dura, che non consente di poter scegliere la canzone da ascoltare e che obbliga a sorbirsi un sacco di interruzioni pubblicitarie. Oppure, visto che senza musica non si può stare, cercarla altrove. Sembra facile, ma non lo è, visto che tutte le canzoni, di fatto, sono lì sopra. Perché il capitalismo vince sempre, è vero, ma solo finché non ci si incazza sul serio. Se davvero ci togliessimo tutti da Spotify, cosa farebbe Daniel Ek per salvare il fatturato? Varrebbe la pena di provare, no?

