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Ma cos'è la storia di Spotify che finanzia la guerra? E perché solo Piero Pelù si incazza?

  • di Valentina Menassi Valentina Menassi

  • Foto: Ansa

27 giugno 2025

Ma cos'è la storia di Spotify che finanzia la guerra? E perché solo Piero Pelù si incazza?
Spotify finanzia la guerra? Daniel Ek, fondatore della piattaforma di streaming più usata al mondo, ha investito 600 milioni in una start-up militare che sviluppa droni e tecnologie per la difesa europea. Solo Piero Pelù rompe il silenzio: “Uno schifo di individuo”. Ma è davvero Spotify a pagare? E perché nessun altro artista protesta?

Foto: Ansa

di Valentina Menassi Valentina Menassi

Dalle hit pop ai droni da combattimento, dal mondo delle playlist a quello degli arsenali militari: il passo, per Daniel Ek, sarebbe stato breve. Il fondatore e Ceo di Spotify, dopo aver fatto la guerra a chi usava l'app crackata, ha guidato un investimento da 600 milioni di euro nella startup europea Helsing, che sviluppa tecnologie militari basate sull’intelligenza artificiale per l’uso da parte di eserciti europei. A riferirlo è stato il Financial Times, confermando che il capitale è stato erogato dal fondo personale di Ek, Prima Materia, e non da Spotify stessa. Helsing lavora a sistemi IA per droni, sottomarini e aerei da combattimento, compreso un sistema denominato “Centaur”, già adottato – secondo quanto riportato – dai governi di Germania, Regno Unito, Svezia e, più recentemente, Ucraina.

L’ingresso di Ek nel consiglio d’amministrazione dell’azienda ha reso pubblico un rapporto ormai consolidato tra l’imprenditore svedese e l’industria della difesa. La cifra investita ha attirato l’attenzione non solo dei media, ma anche del mondo della musica. In Italia, l’unica voce a esporsi è stata quella di Piero Pelù, che sui social ha attaccato Ek per l’apparente contraddizione tra l’identità culturale della musica – spesso associata a messaggi di pace e diritti – e la scelta di finanziare lo sviluppo di armi. “Noi poveri ingenui pensavamo che questi investimenti andassero alla ricerca sul cancro o alle Ong che salvano vite in mezzo ai mari, invece no…”, ha scritto Pelù, criticando anche il silenzio dei colleghi musicisti: “Se molti artisti facessero pressione su questo padrone insensibile della nostra arte, potrebbero farlo ragionare”.

Daniel Ek (Spotify) con John Elkann
Daniel Ek (Spotify) con John Elkann Ansa

A differenza del 2021, quando lo stesso Ek aveva investito i primi 100 milioni di euro in Helsing provocando la nascita dell’hashtag #boycottspotify, oggi la reazione dell’industria musicale è rimasta quasi inesistente. Nessuna grande voce internazionale si è pronunciata, né in favore né contro, e anche in Italia le richieste di commento – secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano – non hanno ottenuto risposta da parte degli artisti interpellati. Pelù parrebbe rimasto solo, mentre altri sembrano preferire la prudenza, temendo ripercussioni in termini di visibilità o contratti. In effetti, Spotify, che ha proposto la classifica dei tormentoni estivi, ha già mostrato di poter penalizzare artisti critici verso la piattaforma, anche solo spostandoli in fondo alle playlist algoritmiche.

Ma quanto conta davvero Helsing? Secondo quanto riportato da Reuters, TechCrunch e altri media internazionali, la startup ha chiuso il round con la più alta raccolta europea dell’anno, portando la sua valutazione a 12 miliardi di euro e attirando anche fondi americani e britannici. Il suo obiettivo dichiarato è quello di “rafforzare la sovranità tecnologica europea” e “rendere le democrazie capaci di difendersi in modo autonomo”, ma i suoi prodotti – come il drone autonomo HX-2 – hanno già trovato impiego in scenari operativi. Per alcuni osservatori, Helsing rappresenta il tentativo dell’Europa di non restare indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina anche nella difesa tech. Per altri, è un campanello d’allarme sull’ibridazione tra industria tecnologica, venture capital e armamenti.

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Spotify, dal canto suo, continua a dominare il mercato dello streaming musicale con oltre 600 milioni di utenti, 20 miliardi di euro di fatturato e un valore di mercato stimato in oltre 60 miliardi di dollari. Ek possiede circa il 15% della società, mentre tra gli altri azionisti figurano fondi cinesi come Tencent (8,4%), americani come Morgan Stanley (4,4%) e T. Rowe Price (3,2%). Le major discografiche, un tempo co-fondatrici della piattaforma, oggi hanno quote marginali: Universal è rimasta con circa il 3,3%, mentre Sony e Warner hanno venduto quasi tutto. In Italia, nonostante la vastità del catalogo, Spotify frutta agli artisti cifre contenute: circa 0,05 euro per singolo stream, da dividere tra etichette, editori e autori. Agli interpreti resta solo una piccola parte. E mentre la SIAE non viene pagata direttamente, ma solo in occasione della riproduzione pubblica dei brani (ma la stessa Siae ci ha contattato e ci tiene a specificare che Spotify paga direttamente e regolarmente le royalties riferibili alle utilizzazioni del repertorio Siae riprodotte in streaming dalla propria piattaforma) il fisco italiano incassa circa 70.000 euro l’anno da Spotify: briciole, rispetto ai profitti globali.

L’investimento in Helsing non ha conseguenze legali per Spotify, ma solleva interrogativi etici e politici. Ek non ha mai nascosto la sua intenzione di usare il proprio capitale per rafforzare la capacità militare dell’Europa, ma la coesistenza tra il volto “pacifista” dell’industria musicale e gli interessi nell’industria bellica inizia a creare tensioni. Per ora, però, nessun boicottaggio di massa è all’orizzonte. L’arte tace, i contratti parlano, e la guerra – per ora – è solo quella di Piero.

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