È una vicenda personale tutt’altro che banale quella che racconta Elly Schlein nel suo libro “La nostra parte”, uscito nel febbraio 2022 e pubblicato da Mondadori (ma non era una fan dell’«indie», a proposito?). Una storia che si lega a quella dell’Ucraina, con interessanti riflessioni sulla storia del Paese ex sovietico che forse molti compagni del suo partito oggi non apprezzerebbero granché. Il libro è uscito pochi giorni prima dall’invasione russa del 24 febbraio 2022 e Schlein parla di temi di strettissima attualità, quelli dell’identità e del confine, labilissimo, tra Storia e Memoria quando si parla della grande sequela di tragedie del Novecento. “Sono figlia di madre italiana, di Siena, e padre americano; nata e cresciuta in Svizzera da «straniera»”, riporta la neo-segretaria del Partito Democratico. Che ha nella multiculturalità la sua radice storica: la madre è “nipote di un nonno e una nonna paterni entrambi emigrati. Mio nonno si chiamava Herschel Schleyen, nato nel 1892 a Zolkiew (oggi Žovkva), una piccola città poco distante da Leopoli. All’epoca in cui mio nonno la lasciò era ancora sotto l’Impero austro-ungarico, mentre oggi si trova in Ucraina. Conta poco più di diecimila abitanti, ma ha una sua storia importante” sottolinea. Parliamo di una regione che nel giro di un secolo ha cambiato più volte padrone: prima gli Austro-Ungarici, poi la Polonia tra le due guerre, durante la seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica prima (1939-1941) e la Germania nazista poi. Infine, dal 1945, l’Urss e dal 1991 l’Ucraina indipendente. Dunque di una regione sconvolta dalle più gravi tragedie della storia che hanno sconvolto le “Terre di Sangue” tra i Russi e i Tedeschi.
In Galizia, regione tra i Carpazi e la Vistola dove viveva una vasta comunità ebraica, racconta la neo-segretaria dem, “si è scritta una delle pagine più atroci ed efferate dell’orrore dell’Olocausto. I nazisti organizzarono con la collaborazione dei nazionalisti ucraini dei pogrom massicci, di una violenza che non si può immaginare: ammazzavano anche 30.000 persone al giorno”. Decine di migliaia di ebrei, osserva, “furono rinchiusi nel ghetto di Leopoli, deportati al campo di concentramento di Janowska nell’immediata periferia della città oppure fucilati alla cava di argilla e sabbia nel bosco. A dispetto di certa narrazione mainstream e propaganda che vede l’Ucraina come una democrazia compiuta, Elly Schlein commenta così la Leopoli del 2018, dove si è recata insieme ai suoi genitori per cercare tracce della famiglia di suo padre. Qui, scrive, “sembra che i pogrom non ci siano mai stati. La grande sinagoga di Zolkiew è miracolosamente ancora in piedi, imponente e bella, ferita e vuota, sfregiata, i muri densi e freddi che hanno visto e assorbito il male del mondo. Il silenzio rimbomba, lì dentro, fa un rumore sordo come la rimozione dell’accaduto”. A Leopoli, accusa Schlein, “non c’è un museo, non c’è un’indicazione sulla mappa per raggiungere quello che è stato il campo di concentramento dove i nazisti costringevano una piccola orchestra di ebrei a suonare, mentre ne venivano uccisi a migliaia. Come faranno le nuove generazioni a evitare i tragici errori del passato recente, se nessuno si preoccupa di tenerne viva la memoria? Il nazifascismo è stato sconfitto, ma la minaccia del suo rigurgito non è mai sopita”. Putiniana anche lei? No, è semplicemente un pezzo di storia ampiamente nota ma che oggi è difficile raccontare se non si vuole essere accusati di improbabili simpatie per il presidente russo e per la sua guerra ingiustificabile. Perché l’Ucraina è pur sempre la patria dell’eroe nazionale Stepan Bandera e questo nessun revisionismo lo può cancellare. Significa che Zelensky e tutto il governo ucraino siano dei «nazisti» come sostiene la propaganda russa? Assolutamente no. Ma che vi siano importanti tracce di pericoloso sciovinismo nell’ultra-nazionalismo ucraino e qualche questo è un dato acclarato. E questo Schlein lo mette a fuoco perfettamente. A Leopoli morirono oltre 130.000 ebrei”.
La Memoria è spesso la mola migliore per capire la Storia. E forse un certo freno dell’ex vicepresidente dell’Emilia-Romagna all’armateli e partite con cui il Pd ha sostenuto l’Ucraina nell’era Draghi non viene solo dalla postura pacifista a cui la Sinistra progressista di Schlein appartiene. Ma anche da un fermo concetto legato all’eredità personale. Schlein ha ricordato un dato di fatto lapalissino alla sua recente intervista a Che Tempo che Fa: “Bisogna sostenere il popolo ucraino rispetto a una invasione criminale, questo non è mai stato messo in discussione” ma “non ci può essere sinistra senza ambizione di costruire un futuro di pace”. Quel futuro che alla regione dove Schlein ha le radici che hanno portato la sua identità a essere italiana e cosmopolita spesso è stato negato dal turbine della Storia. Il punto di fondo è la dicotomia mediatica e politica. Si è vista l’Ucraina come un fine e non come un mezzo, cavalcando un’agenda politica che presentava un aggressore “orco” e un aggredito “buono”, candido negando la complessità politica di decenni di storia. Giudizi di valore morale dovrebbero prescindere dalla decisione sul sostegno alla resistenza a Kiev. Quel che dice Schlein è la constatazione della storia, che giunge fino ai giorni nostri, e dell’abuso pubblico della Memoria. Non si può non condividere lo sgomento da lei provato nella Galizia in cui una parte della storia locale è stata, fisicamente prima e moralmente poi, eradicata. E i primi ad aver a cuore questo tema dovrebbe essere proprio chi lotta per un’Ucraina indipendente, libera e democratica per il dopoguerra.