La crisi allargata in Medio Oriente, con gli attacchi angloamericani nel Mar Rosso contro obiettivi legati ai ribelli Houthi dello Yemen, rischia di avere ripercussioni anche sulla nostra vita quotidiana, dall’aumento dell’inflazione causata dalla crescita dei costi per i trasporti, al prezzo della benzina. Non è un mistero, infatti, che i sistemi energetici europei siano fortemente dipendenti dalle catene di approvvigionamento globali e subiscano le conseguenze di eventi lontani migliaia di chilometri dai mercati nazionali. Secondo le ultime stime, il future sul Wti segna un +0,07% a 72,73 dollari al barile, mentre il Brent sale dello 0,18% a 78,43 dollari. Nei giorni scorsi si era registrato un vero e proprio boom dei prezzi del petrolio, con il greggio Brent che ha toccato gli 80 dollari al barile per la prima volta quest’anno, prima di stabilizzarsi nelle ultime ore. Al momento, però, nonostante i rialzi del greggio per via dell’aggravarsi della crisi in Medio Oriente, i prezzi dei carburanti, nonostante il forte rialzo delle quotazioni dei prodotti raffinati, stando alla rilevazione di Staffetta Quotidiana datata 12 gennaio, sono in leggera flessione, con la benzina self service a 1,772 euro/litro (-2 millesimi, compagnie 1,774, pompe bianche 1,766) e il diesel self service a 1,730 euro/litro. Ma cosa potrebbe accadere se la situazione peggiorasse ulteriormente? Secondo Massimo Dal Checco, presidente di Confindustria Assafrica & Mediterraneo citato dal Quotidiano Nazionale, “l’aggravarsi della crisi rischia di avere ripercussioni negative per il settore privato italiano e per il commercio del nostro Paese con i mercati asiatici. Dallo stretto di Bab-al-Mandeb, snodo cruciale tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, passa infatti circa il 40% del commercio marittimo italiano".
Mar Rosso “arena” di scontro tra potenze
Il Mar Rosso rappresenta uno snodo cruciale del commercio marittimo mondiale. È anche per questo motivo che le lotte di potere regionali e globali si svolgono nell’"Arena del Mar Rosso”, termine che fu coniato dall’ex presidente del Sud Africa e dell’Unione Africana, Thabo Mbeki che, purtroppo inascoltato, propose di creare un forum diplomatico che includesse non solo gli Stati litorali, ma tutti gli altri Paesi con interessi vitali nel Mar Rosso o con legami politici e commerciali con quest’ultimo, tra cui l’Etiopia, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, l’Oman e la Turchia oltre, naturalmente, all’Italia. Non è un caso che da queste parti le grandi potenze abbiano le proprie basi: gli Stati Uniti con “Camp Lemonnier”, situata a Gibuti, vicino a Bab-el-Mandeb (“Porta delle lacrime”), o la stessa Cina, che sempre a Gibuti ha una propria base strategica che si trova presso il porto di Doraleh, gestito dai cinesi, a ovest della città di Gibuti. Non manca il nostro Paese, presente proprio a Gibuti con la Base Militare Italiana di Supporto (Bmis).
Snodo strategico fondamentale
Gli attacchi dei ribelli Houthi dello Yemen alleati dell’Iran verso navi mercantili sono iniziati a seguito dell’operazione militare di Israele a Gaza: ne è nata, in risposta, l’operazione internazionale Prosperity Guardian guidata da Stati Uniti e Regno Unito, coni il supporto di Australia, Canada, Bahrein, Danimarca, Grecia, Singapore, Paesi Bassi, Sri Lanka e Norvegia con con “l'obiettivo di garantire la libertà di navigazione per tutti i paesi e rafforzare la sicurezza e la prosperità regionale”. Il Mar Rosso è una stretta striscia d’acqua da cui transita, però, il 12% del commercio marittimo mondiale. Per i marinai, si dice, il Mar Rosso è "un mare sulla strada per un altro posto", le sue coste, ricorda il think-tank Usa Responsabile Statecraft, nel migliore dei casi sono un inconveniente, nel peggiore una minaccia per la sicurezza. Se il Mar Rosso dovesse chiudere - come accadde in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1967 - gli effetti a catena sul commercio tra Europa e Asia sarebbero economicamente molto pesanti. Dopo le già gravissime ripercussioni energetiche e geopolitiche della guerra in Ucraina, una prospettiva di questo tipo rappresenterebbe uno scenario da incubo per l’Europa. Allora sì che l’impennata del greggio e dell’inflazione sarebbe inevitabile e pesantissima.
I raid anglo-americani
È bene non illudersi. I raid angloamericani non piegheranno facilmente gli Houthi dello Yemen. Secondo il segretario alla Difesa Lloyd Austin, gli attacchi “interromperanno e degraderanno le capacità degli Houthi di mettere in pericolo i marinai e minacciare il commercio globale in una delle vie navigabili più critiche del mondo. L’azione odierna della coalizione invia un chiaro messaggio agli Houthi che sosterranno ulteriori costi se non porranno fine ai loro attacchi illegali”. Ciò che afferma Austin può avere senso a prima vista, ma come spiega l’ex ufficiale della Cia, Paul R. Pillar, “è improbabile che questi attacchi aerei statunitensi possano alleviare, per non parlare di risolvere, il problema. L’escalation militare in un’area già instabile non rassicurerà le compagnie di navigazione” osserva. Motivo? Circa sei anni di guerra dell’Arabia Saudita - sostenuta dagli Stati Uniti - nello Yemen, con bombardamenti aerei devastanti e un blocco navale, non hanno impedito agli Houthi di conquistare la capitale Sana’a e una parte del Paese. Anzi. La milizia filo-iraniana si è rafforzata negli anni, e ora è abituata a combattere e a vivere in guerra e per la guerra. Oltre ad essere inefficaci, spiega Pillar, gli attacchi contro gli Houthi comportano altri danni. Il primo è mettere a repentaglio la possibilità di raggiungere una pace duratura nel Paese, dopo che Riyad si è seduta al tavolo dei negoziati e ha riconosciuto gli Houthi come interlocutore e de facto l’attore che controlla capitale dello Yemen. Sia chiaro: alternative semplici e a costo zero a un’azione di deterrenza di questo tipo non esistono. Certo che, seppur estremamente delicata, una decisa azione diplomatica - magari attraverso il Qatar o gli stessi sauditi - avrebbe dovuto quantomeno essere un’opzione da prendere in considerazione anziché affidarsi sempre e solo all’hard power.